Storia dell'articolo
Chiudi

Questo articolo è stato pubblicato il 09 dicembre 2012 alle ore 08:19.

My24


Quando scompare un compositore britannico, indipendentemente dalla distinzione sempre incerta tra "maggiori" e "minori", si può essere certi di un aspetto della sua fisionomia: il suo lascito, anche se non fra gli eminenti, non è mai inutile, mai di maniera, sempre originale o almeno con un nucleo di sicura originalità. Questa riflessione è d'obbligo nel momento in cui riceviamo la notizia della morte di Jonathan Harvey (Sutton Coldfield presso Birmingham, mercoledì 3 maggio 1939 ? Lewes, East Sussex, martedì 4 dicembre 2012). Di lui ci erano familiari e gradite alcune composizioni propriamente sacre e di possibile impiego liturgico, come O Jesu Nomen Dulce per coro (1979), o comunque d'ispirazione religiosa, fra cui molto bella quella per "musica concreta" (pre-registrata su nastro ottofonico) elaborata al computer, intitolata Mortuos Plango, Vivos Voco (1980), suggerita dalla memoria di una poesia di Friedrich Schiller, Das Lied von der Glocke, il cui exergo è l'iscrizione su una campana del Duomo di Schaffhausen in Svizzera, "Vicos voco, mortuos plango, fulgura frango": una scritta sottoposta da Harvey a un'inversione, come si vede, in cui s'intravede la vittoria della vita sulla morte. Ma, grazie a felici occasioni più che a ricerche deliberate, avevamo letto di lui anche uno scritto del 1999, riflessione di autentica filosofia della musica: una filosofia all'inglese, vissuta, fantasiosa e descrittiva, un po' come nel magnifico The Language of Music dell'indimenticabile Deryck Cooke. Lo scritto cui alludo è In Quest of Spirit, Thoughts on Music, poi edito in lingua francese nel 2007 con il titolo Pensées sur la musique a cura di Danielle Cohen-Lévinas .
In anni successivi al 1999, abbiamo avuto modo di trarre momenti di vero benessere intellettuale dall'ascolto di sue musiche da camera: Il Trio per 2 archi e pianoforte (1971), il Quartetto per archi n. 1, entrambi percorsi da visioni e abbandoni in cui è riconoscibile una raffinata eredità: risalendo a ritroso, Olivier Messiaen, Alban Berg, Frank Bridge, Charles Stanford, probabilmente Johannes Brahms, ma il tutto celato in una scrittura ricca di stilemi assolutamente nuovi, pronti a usi timbrici avventurosi e sperimentali. Caratteristica costante della musica di Harvey, della sua come di molti altri musicisti inglesi, è il contrasto dialettico tra la volontà di sperimentalismo, sostenuta dall'abilità e dalla dottrina, e l'irruzione di un nostalgico e commovente lirismo. Ci ripromettiamo di ascoltare altro di lui, poiché una morte è sempre, tristemente, un'esortazione a non dimenticare.
Harvey aveva studiato al St. John's College di Cambridge, e aveva avuto lezioni private da Erwin Stein e Hans Keller su consiglio di Benjamin Britten. Dopo avere studiato all'Università di Glasgow, fu violoncellista nel BBC Scottish Symphony Orchestra. Più tardi, fu influenzato da Karlheinz Stockhausen, e, durante esperienze compiute all'Ircam di Parigi, da Pierre Boulez. L'esperienza dell'Ircam fu per lui lo stimolo a una delle sue più significative composizioni, Speakings, per grande orchestra e strumenti elettronici, che egli intese come una sistematica analisi del linguaggio musicale. Fu anche "visiting professor" all'Università di Oxford, ma nell'insieme il suo impegno didattico fu saltuario, se paragonato all'intensità del suo lavoro di compositore.

Ultimi di sezione

Shopping24

Dai nostri archivi