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Questo articolo è stato pubblicato il 10 dicembre 2012 alle ore 11:44.

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Senza il conforto di alcun talento ma sospinto da una smisurata convinzione, Jacopo Cerasa si era trasferito a Roma per fare l'attore. Siccome abitava in una piccola cittadina di provincia non lontano dalla capitale, il padre proprio non riusciva a capire perché avrebbe dovuto trasferirsi in città quando il regionale accelerato delle 7:32, che lui aveva preso per una vita essendo ora un pendolare in pensione, impiegava un'ora scarsa per arrivare a Termini.

E questa incomprensione fece sì che il giorno d'estate in cui il figlio si decise a partire, il padre non solo non lo accompagnò alla stazione, ma non lo salutò nemmeno, restando nell'orto a legare i pomodori. Lo accompagnò invece la madre, che capiva gli ardori del ragazzo e, sebbene non li incoraggiasse, li giustificava. Il ragazzo, magro e slanciato nell'aspetto, con una vita stretta come quella di certi camerieri, i capelli neri e folti e i lineamenti ben fatti, nello scendere dal treno venne investito – e quasi travolto – da una impetuosa fiumana di gente. Accaldato, con le spalline dello zaino che gli segavano la pelle sotto la camicia sudata, sentì che per non affogare in quel gorgo, per non finire nella fossa comune dei tanti che si erano trasferiti a Roma in cerca di fortuna senza trovarla, avrebbe dovuto cambiar nome.

E l'intuizione avvenne per associazione di idee, fulminea e resoluta, mentre sulle scale mobili s'inabissava nella metropolitana contemplando su un pannello pubblicitario lo spot di una nota marca di racchette e palline da tennis. Nella sua folgorante, o per lo meno in quella che all'epoca si prospettava tale, carriera d'attore, si sarebbe fatto chiamare WILSON GARGANO.

Essendo appunto la madre una "Gargano in Cerasa", trasferitasi dal Meridione nell'entroterra laziale dopo aver conosciuto il padre in un modo del tutto irrilevante. Quel che avvenne nei labirintici e fatiscenti sotterranei della metropolitana di Roma fu un improprio, ma incontestabile, fenomeno di reincarnazione: Jacopo Cerasa era sceso sottoterra per prendere la linea A direzione Anagnina, Wilson Gargano era riemerso alla stazione Subaugusta. La madre, attraverso una lontana conoscente, aveva trovato a Wilson una sistemazione presso una vedova che viveva non lontano da Cinecittà, come se quella vicinanza potesse essere utile, o quantomeno promettente, viste le aspirazioni del figlio. Per quanto Jacopo avesse dovuto rassicurare la madre che almeno per un po' sarebbe rimasto lì, come ebbe aperto la porta, soppesato l'ordinato squallore della sistemazione e valutato la mancanza di un bagno indipendente nell'appartamentino zeppo di ninnoli e soprammobili, Wilson considerò da subito come provvisoria quella sistemazione.

Le giornate erano lunghe e le sere dolci. Wilson usciva poco prima del calar del sole, quando l'afa concedeva respiro. Faceva lunghe passeggiate senza mèta e restava intontito dalla magnificenza dei monumenti, dal rigoglio dei giardini, dal silenzio delle rovine, e dalla placida noncuranza dei suoi abitanti per tutto ciò. Si spostava a piedi o coi mezzi, andava spesso al cinema e a teatro, arrivando sempre o con grande anticipo o con grave ritardo, essendo molto complicati gli spostamenti a Roma. Fuori dai teatri o davanti agli autobus che ripartivano rombando, Jacopo s'incantava davanti ai cartelloni degli spettacoli e, con un fotomontaggio della sua immaginazione, sostituiva senza sforzo il nome del protagonista col suo.

Bastava chiudere gli occhi ed era già a struccarsi nel camerino assediato di gente. Al termine degli spettacoli, sostava a lungo nei foyer, nella speranza di incontrare attori e impresari, ma questi non uscivano proprio, venendo come ingoiati e digeriti dai teatri stessi; o per lo meno questo pensava Wilson, che non teneva in considerazione le uscite secondarie. Quando riusciva ad avvicinarli, erano scostanti e maldisposti alla conversazione. I pochi che aveva abbordato davvero avevano saputo elargire solo aridi consigli: «Si scelga un altro mestiere…», gli aveva detto un anziano attore considerato un monumento vivente (o semivivente) al teatro, mentre si allontanava a passi sbilenchi verso la trattoria con una giovane sottobraccio. Insomma, nella vita di Wilson l'incontro che avrebbe potuto imprimere un'accelerazione improvvisa alla carriera tardava ad arrivare.

Anzi, per tornare proprio alla sua carriera d'attore, Wilson la vedeva ferma come un autobus in attesa dell'autista. E tanti ne aveva presi di autobus nei sei mesi che erano trascorsi dal suo arrivo a Roma. Sei mesi durante i quali aveva cambiato casa altre due volte, affittando prima una camera a San Lorenzo, dividendo l'immobile con degli studenti fuori sede troppo rumorosi per i suoi gusti, infine Pigneto, dove aveva subito sentito che si sarebbe fermato a lungo, poiché lì vivevano i suoi simili: giovani artisti impegnati e giovani che si impegnavano per diventare tali. In tutto quell'anno era andato in giro per teatri e produzioni, battendo la città a tappeto, senza alcun criterio. Si era abituato a fare lunghe anticamere sprofondato in morbide poltrone di pelle o arrampicato su scomodi sgabelli, aveva sorriso alle segretarie, aveva salutato in modo educato gli uscieri, si era sentito chiedere se aveva un appuntamento, si era sentito rispondere che il dottore era in riunione.

Si era proposto per ogni audizione o provino per film, musical, commedia, dramma o spot pubblicitario che fosse. Ma era risultato sempre e invariabilmente fuori ruolo: troppo drammatico per le parti comiche, troppo comico per quelle drammatiche, troppo teatrale per il cinema, poco rassicurante per la pubblicità, collezionando sì qualche complimento ma, soprattutto, una caterva di «Le faremo sapere». Quell'infilata d'insuccessi non lo aveva scoraggiato – leggendo le biografie degli attori sapeva bene che all'inizio la strada è sempre in salita – ma lo aveva costretto a meditare. Nelle sue inconcludenti giornate Wilson si sedeva spesso nei caffè del Pigneto. Arrotolandosi sigarette sottili che si spegnevano di continuo, si lamentava con colleghi e amici del disprezzo degli italiani nei confronti dell'arte, dei drammatici tagli alla cultura e di molte altre questioni estremamente serie.

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