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Questo articolo è stato pubblicato il 16 dicembre 2012 alle ore 08:20.

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Si astengano i puristi del tenebroso Alfred, i vivisezionatori filologici di ogni frammento delle sue opere: Hitchcock di Sacha Gervasi – che ha aperto la XXII edizione del «Courmayeur noir in festival» (oggi al suo ultimo giorno) – è un film piacevole su un particolare periodo emotivo e professionale del regista britannico.
Gervasi – già celebrato documentarista del melanconico Anvil! The Story of Anvil –, ha voluto rendere omaggio al venerato connazionale, raccontando la sua ossessività nella realizzazione di Psycho e il conseguente allontanamento della moglie Alma.
Il film non nutre alcuna ambizione di scavo tecnico sulla scena madre di tutti gli horror – l'uccisione a coltellate nella doccia di Janet Leigh – o sulle trovate geniali di un autore che rivoluzionò il modo di fare cinema. Gervasi, alla sua prima opera narrativa, ha saputo condurre con mano felice due attori del calibro di Anthony Hopkins e Helen Mirren, magistrali coniugi Hitchcock, in una storia verosimile, ma senza pretese di verità. Si tratta di fiction e come tale i dialoghi sono opinabili, quanto quelli di The Queen di Stephen Frears sulla Regina Elisabetta II (di mezzo c'era sempre Helen Mirren) o di Truman Capote - A sangue freddo di Bennett Miller (con Philip Seymour Hoffman), di cui non si mette in discussione il valore della regia e dell'interpretazione.
Si capisce quanto l'icona di "Hitch" sia profondamente radicata in noi, quando la carrellata iniziale sull'elegante figura panciuta assai simile allo spettrale Alfred d'un tratto si pianta sul volto ben truccato di Hopkins e la sala ha un sobbalzo. Se questa prima coltellata non lascia cicatrici troppo profonde nel cinefilo, ci si può immergere amabilmente nell'ostinazione con cui il regista perseguì l'obiettivo di portare sullo schermo il romanzo di Robert Bloch. Siamo nell'America puritana alla fine degli anni Cinquanta e un soggetto virato su uno schizofrenico pluriomicida, obnubilato dalla figura della madre che tiene imbalsamata in casa, fa storcere immediatamente la bocca alla Paramount. Il diniego della fino allora sodale società di distribuzione permette l'entrata in scena della vera protagonista del film di Gervasi: Alma Reville, regista, sceneggiatrice, montatrice di grandi capacità, che per il pubblico è però solo moglie di Hitchcock.
Sarà lei a decidere di ipotecare la casa per finanziare un progetto in cui non crede (la Paramount fungerà unicamente da distributore), lei a revisionare la sceneggiatura di Joseph Stefano, lei a tenere le redini della regia quando il marito si ammala. Tutto in silenzio, sopportando in sordina gli innamoramenti platonici (forse) e i comportamenti invasivi e prepotenti del marito verso le giovani attrici (brava anche Scarlett Johansson, vezzosa e turbata Janet Leigh). Così la femminilità umiliata di Alma trova riparo in uno scrittore galante, in cerca non d'amore ma di raccomandazioni.
Alla fine Psycho viene alla luce e raggiunge l'obiettivo sperato, quello di far rabbrividire la sala con urla di terrore. I recensori invece lo stroncano, a partire di Bosley Crowther che sul «New York Times» liquida il film come «una macchia in una carriera onorevole». La critica in realtà aveva sempre snobbato Hitch: l'intervista di François Truffaut, Il cinema secondo Hitchcock, che ha contribuito a consacrarlo maestro, prende corpo solo sei anni più tardi. Le pecche nel film di Gervasi ci sono: un finale dolciastro e una sottile indecisione nella strada da privilegiare: la storia della costruzione di un film di culto o una vicenda sentimentale universale, resa unica da due personaggi incredibili. Ambiguità perdonabile, visto che la storia c'è e tiene. Ma per vederlo dovremo aspettare fino al 21 febbraio.
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