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Questo articolo è stato pubblicato il 16 dicembre 2012 alle ore 08:17.

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di Alessandro Pagnini
È curioso che uno scritto così importante veda la luce con tanto ritardo da quando Colli e Montinari hanno completato l'edizione critica delle opere di Nietzsche. Jean-Luc Nancy e Philippe Lacoue-Labarthe l'avevano parzialmente tradotto in francese e presentato, sia pure con qualche approssimazione filologica, sulla rivista «Poètique» nel '71; e anche il noto critico americano Paul De Man ne aveva scritto in quegli anni; ma nonostante l'attenzione di queste autorevoli e influenti figure e nonostante la voga nietzscheana di quegli anni, seguita soprattutto alla traduzione francese del Nietzsche di Heidegger (la cui eco si era sentita eccome anche in Italia), quegli scritti giovanili sulla retorica sono rimasti in ombra e pressoché ignoti alla cultura italiana. Questa edizione, con testo originale a fronte, ragguardevole nell'apparato critico, nella cura testuale e nella ricostruzione storica, fa loro oggi giustizia.
Si tratta di lezioni che Nietzsche aveva preparato, abbozzandole per iscritto per i suoi corsi di filologia all'Università di Basilea, negli anni in cui aveva esplicitamente manifestato il suo desiderio di insegnare filosofia richiedendo, non accontentato, un trasferimento su quella cattedra vacante nella stessa Università. È il periodo, che va dal 1871 al 1874, del controverso successo del suo primo libro su La nascita della tragedia, delle prime Considerazioni inattuali e dello scritto, tematicamente assai affine a questo, Su verità e menzogna in senso extramorale. È anche il tormentato periodo in cui Nietzsche rompe i rapporti con Wagner, e prende distanze polemiche dalla filologia storico-critica dei maestri (quelli che chiama le "talpe" filologiche, che fanno ricerca senza filosofia e senza vita). E queste lezioni sono importanti per capire una vera e propria "svolta" nel pensiero di Nietzsche, come qui il curatore bene evidenzia, e anche per capire il senso di una delle rinascite della retorica tra Otto e Novecento.
Per Nietzsche rileggere la retorica antica significa innanzitutto comprendere a fondo quella sovrabbondanza di parola che caratterizzava la cultura orale dei Greci e dei Romani, quando il linguaggio, al servizio dell'arte e del mito, era un libero gioco di metafore e un'autentica forza creatrice, e quando ascoltare era anche un ascoltare musicale. Ma proprio in questo egli si rende conto che il vagheggiamento di un eden del linguaggio, di una sua essenza, di una sua origine "simbolica", è una chimera. L'uomo nasce con un istinto fondamentale a sdoppiare il mondo in cui vive, per antropomorfizzarlo e dominarlo, che si esplica nella produzione di metafore. Non è il mondo esterno, né un mondo interiore di idee, che si traspone nel linguaggio; il quale invece è pura "energia sonora" che plasma dai nostri dati sensoriali fino alle più mirabolanti altezze concettuali attraverso un processo "tropico" (Nietzsche definisce i tropi tout court come "designazioni improprie") che non ha un fondamento se non in un mero stimolo nervoso. Per cui è vano risalire all'indietro e ricercare il significato perduto - come parrebbe suggerire la nota similitudine tra la parola e una moneta consunta di Su verità e menzogna - e non può che perderci in una vertigine di differimenti, sempre "oltre", in un infinito regresso che richiama, evocato a proposito dal curatore, il primo Derrida, o magari anche Rousseau. Della retorica, a Nietzsche, interessa il modo in cui ci consente di ripensare al linguaggio; ma lontano da ogni tentazione di trovarne una condizione aurorale di corrispondenza alle cose, e lontano dalla verità.
Dicevo anche di un'importanza "epocale", e non solo personale, di questa visione della retorica classica da parte di Nietzsche. La retorica è "rinata" diverse volte nel secolo scorso: all'insegna di un interesse letterario ed estetico, che diventa anche civile e politico nella tradizione ciceroniana-vichiana richiamata da un Ernesto Grassi, per esempio; all'insegna di un interesse quasi logico per la parte dialettica, intellettuale, della retorica che concerne l'argomentazione, in Perelman o in Toulmin; e nella direzione della costruzione di una razionalità pratica basata sulla comunicazione e sulla dialogicità, in Habermas e in Gadamer. Indubbiamente in quest'ultimo caso diventa significativo il riferimento a II libro della Retorica di Aristotele che Heidegger fa in Essere e tempo, dove la retorica è per lui un'«ermeneutica dell'essere insieme quotidiano», una fenomenologia dell'esistenza attenta a cogliere quella «tonalità affettiva» che ne è l'imprescindibile qualità, mai riducibile a mera funzione psicologica. Nietzsche, in questo suo straordinario ripercorrimento della retorica e dell'eloquanza classiche, attento a tutte le loro possibili declinazioni, precorre diverse di quelle rinascite. Ha intuizioni che vanno ben al di là di una riproposizione di una nuova sofistica o di una nichilistica negazione di ogni possibile "scienza" della significazione. Certo, in Nietzsche c'è questo, come c'è la pratica di una filologia che emenda il mondo, che diventa critica della cultura, senza però occultare le differenze e senza negare i valori, anche quando non sono da lui condivisi. Una di queste intuizioni lo porta a preferire Kant per il quale, nello spirito dei Greci, «l'eloquenza è l'arte di trattare un compito dell'intelletto come un libero gioco dell'immaginazione», contro il culto della solennità individuale, contro «l'eccedenza dominante della singola personalità», tipici dell'arido e rozzo naturalismo dei Romani. Un modo interessante per suggerire l'origine di una delle tante "divisioni" che hanno segnato il corso della cultura occidentale.

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