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Questo articolo è stato pubblicato il 21 dicembre 2012 alle ore 09:42.

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Mussida (Pfm) in India sulle orme dei Beatles: «A lezione di sitar per cercare quella libertà che la musica occidentale sta perdendo». Nella foto Franco MussidaMussida (Pfm) in India sulle orme dei Beatles: «A lezione di sitar per cercare quella libertà che la musica occidentale sta perdendo». Nella foto Franco Mussida

Febbraio 1968. Quattro giovani musicisti inglesi, con un imponente seguito di familiari, amici e curiosi, atterrano in India per studiare meditazione trascendentale, yoga, sitar e tabla. Si chiamano John, Paul, George e Ringo. Gennaio 2013. Quaranta giovani musicisti per la maggior parte italiani atterreranno in India per incontrare tre guru che li inizieranno ai segreti della tradizione musicale del subcontinente himalayano.

A guidare la spedizione, uno che nel '68 era il chitarrista del complesso beat dei «Quelli». E che di lì a poco avrebbe innescato la rivoluzione del progressive italiano fondando nientemeno che la Premiata Forneria Marconi.
Stiamo parlando di Franco Mussida che con il Cpm, la «sua» scuola di musica, dal 2 all'11 gennaio sarà in Rajasthan, impegnato nel workshop internazionale di musica indiana «The Raaga Taala Lab». Un progetto nato proprio sulle orme di quello che fu il leggendario viaggio a Rishikesh dei Beatles, cui fino a questo punto hanno aderito cinquanta ragazzi tra musicisti e accompagnatori, provenienti in alcuni casi anche dal di fuori dell'Italia. «Faremo base a Jodhpur, – spiega Mussida – ma per il resto le nostre giornate saranno articolate come quelle del viaggio indiano dei Beatles. I ragazzi potranno scegliere tra un corso di yoga e uno di meditazione trascendentale al mattino, poi avranno modo di avvicinarsi alla musica locale attraverso lezioni di sitar, tabla e canto. Lavorare sulla tecnica e suonare con musicisti del posto».

Mussida, cosa trova un musicista europeo in un viaggio in India?
Un approccio alla musica sensibilmente diverso dal nostro. Sul piano formale, certo, perché la musica indiana non è organizzata secondo i modelli razionali di quella europea. Ma anche sul piano della spontaneità di chi suona. In India a impressionare è il rapporto diretto che si riesce ad avere con le intenzioni del fare musica. Esiste anche da noi, ma lo si trova confinato nel territorio della musica etnica e di quella popolare. Noi occidentali ci siamo lasciati un po' troppo appiattire dalla cassa in quattro. Al contrario, affacciarsi sull'India significa concedersi una salutare boccata d'aria. Ci sono tre guru che ci aspettano. Uno per il sitar, uno per la tabla e uno per il canto. Sarà bello lasciarsi contaminare. Spero però soprattutto in un'esperienza umana importante.

L'approccio indiano alla musica è iniziatico, quasi religioso. Le reazioni popolari alla recente scomparsa di Ravi Shankar lo dimostrano. Nulla di più lontano dal modo d'intendere di noi occidentali.
Anche da noi, però, ci sono ambiti che conservano una certa «sacralità». Penso alla taranta, alla pizzica, ai canti sardi. Torno a dirlo: ambiti confinati al recinto della musica tradizionale. Eppure da questi generi ci arriva una grande lezione di libertà che dovremmo rivalutare.

Negli anni Sessanta lei era un protagonista del cosiddetto beat italiano. I Beatles erano considerati i caposcuola del genere. Come prendeste la loro svolta indiana?
A livello personale ero preparato: adoravo i Byrds e i loro assoli di chitarra 12 corde. E in un certo senso, in quel sound c'erano atmosfere da sitar. L'arrivo dell'India nella musica dei Beatles fu una svolta di profondità. Una profondità che non si avvertiva certo in «Please please me», per quanto quello resti un pezzo molto divertente. Tra «Please please me» e «Within you without you» ci passa in mezzo un mondo. L'esperienza della musica indiana ha lasciato molto in Harrison e Lennon, te ne accorgi in brani direttamente influenzati da quell'immaginario, ma anche in brani insospettabili. Pure in «Imagine» e in «Here comes the sun» c'è la spontaneità dell'India, per esempio. Meno in McCartney che resta il classico istintivo inglese. Capace di scrivere brani di rara eleganza, ma molto più legato al modo di sentire la musica proprio dei britannici.

Dopo i Beatles, quasi tutte le maggiori band del periodo vollero introdurre l'elemento sitar nella loro musica. Dai Rolling Stones di «Paint it black» agli Yardbirds di «Heart full of soul», fino all'Equipe 84 di «Ladro». Ma non era complicato procurarsene uno in Occidente?
Altroché: era complicatissmo. Era difficile acquistare un sitar autentico e ancora più difficile imparare a suonarlo. Ma l'industria andava in soccorso della domanda dei musicisti: si cominciarono a produrre le chitarre-sitar. Erano chitarre elettriche ma, grazie a un ponticello di gomma, producevano un suono molto simile a quello dello strumento indiano per eccellenza. Ne usammo una anche nelle session de «La Buona Novella» di Fabrizio De André: la suonava Andrea Sacchi. Oggi sono roba da collezionisti. Il mio amico Radius dovrebbe averne ancora una.

Le atmosfere indiane favoriscono la composizione. I Beatles laggiù scrissero il White album. È il caso d'aspettarsi che vi verrà concepito pure il prossimo disco della Pfm?
Non lo so ancora. Ho deciso di non prepararmi nulla. La chitarra me la porto, certo. Per il resto proverò il sitar che non ho mai suonato prima d'ora. Voglio lasciarmi meravigliare. E spero sarà lo stesso anche per i 40 studenti che accompagnerò.

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