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Questo articolo è stato pubblicato il 23 dicembre 2012 alle ore 08:20.

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Al «Macbeth» di Verona siamo andati con una curiosità: sentire il direttore. Anzi: risentirlo. Perché Omer Meir Wellber, trent'anni – braccio, dominio tecnico, molto talento – rappresenta uno dei casi più vistosi di come in Italia si possa passare dai trionfi ai tonfi, dagli allori ai buuh. Paradossalmente sullo stesso titolo: «Aida». Quando Wellber la propose, da emerito sconosciuto, a Padova nel 2008, si guadagnò a sorpresa il premio come miglior promessa del podio. Quando la rifece alla Scala, nel febbraio scorso, scatenò tra il pubblico uno di quei putiferi da annali. Con conseguente pollice verso sul suo nome.
Al Filarmonico, scrigno elegante, all'ombra della balneare Arena, non hanno avuto dubbi: qui è approdato, come nuovo direttore artistico Paolo Gavazzeni, da sempre nel team artistico della Scala, e per inaugurare la stagione, hanno chiamato Wellber. Pur con un curriculum di almeno una ventina di titoli, proposti tra Israele, la Germania e il Palau di Valencia (fino al 2014 è lì direttore musicale) non l'aveva mai toccata. Eppure l'ha concertata con tenuta di maturo stampo sinfonico, dove tutte le voci in buca uscivano, guadagnando alla trama compattezza e spessore. Tempi sciolti, duttili. Ma di impostazione classica, dunque senza esperimenti o eccessi. Un pizzico magari in più, di follia, ogni tanto ci sarebbe stato: nelle danze, ad esempio, che nel Macbeth parigino aprono uno squarcio di sonorità francese. Tuttavia, mille volte meglio così che coi mal di mare già nello «zum-pa-pa», come ogni tanto in Verdi capita di sentire. E un plauso all'orchestra di Verona, che ha suonato benissimo.
Era assai disordinato e privo di narrazione teatrale invece il palcoscenico: la regia ingenua, pasticciata, di Stefano Trespidi, con scena vuota, tavolacci al centro per i cantanti, tipo proviamo a fare un'opera, e coi coristi tutti seduti o sdraiati intorno, tutti vestiti di nero, tutti col copione in mano, tipo noi simboleggiamo gli aiuto-regista, appariva molto banale. E soprattutto monotona, da inizio a fine. E soprattutto già molto vista, con gli immancabili filmati, espediente che enfatizza la mancanza di idee teatrali, coi faccioni dei cantanti doppiati. Unica idea, il «Si colmi il calice», il brindisi di Lady Macbeth, con lei che lo rovesciava sul tavolo (non dal bicchiere, non sarebbe bastato, ma da una caraffona ordinaria). Esterrefatto il marito. Vino rosso sangue, certo. Lei era una dominante Susanna Branchini, voce squadrata, forte e monocroma, senza vistose incertezze, senza vistoso fascino di seduttrice verso il male. Andrzej Dobbner, complice forse il maglioncino beige, ben abbottonato, teneva più il passo del pensionato vittima che del complice feroce; poca scolpitura e accento in talune parole chiave. Spiccavano gli altri, il generale Banco di Roberto Tagliavini, la educata Dama di Lady Macbeth, Francesca Micarelli, il generoso Macduff di Massimiliano Pisapia, gambe ben piantate e canto tenorile spiegato nella «Paterna mano». Si possono criticare quanto si vogliono i registi, ma i cantanti lasciati soli tornano immancabilmente agli stereotipi delle foto in posa. Teatro non pieno, che strano, alla prima: molti posti vuoti nei palchi e molti col telefonino sempre acceso e attivo, in platea. L'opera iniziava con mezz'ora di ritardo, per sciopero. Un'altra mezz'ora si passava nell'intervallo, in coda al bar, per guadagnarsi un caffè. Il cartellone del Filarmonico è ricco, le potenzialità della città alte. Chi vorrà risentire Wellber non ha che prenotarsi all'Arena: il titolo inaugurale della stagione del centenario è suo. Quale? «Aida», che domande.
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Macbeth di Verdi; direttore Omer Meir Wellber, regia di Stefano Trespidi; Verona, Teatro Filarmonico,
fino al 23 dicembre

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