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Questo articolo è stato pubblicato il 23 dicembre 2012 alle ore 08:20.

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In un tempo in cui siamo quotidianamente costretti a parlare di violenze e sopraffazioni nei confronti delle donne – il bellissimo spettacolo che Valter Malosti ha ricavato da un poemetto di Shakespeare –, si pone come un ideale manifesto contro ogni sorta di fenomeni del genere un'illuminante analisi dei meccanismi che li generano e delle loro devastanti conseguenze. Ma a impressionare, in questo caso, non è tanto la rabbiosa disperazione della vittima, quanto lo sguardo nella psiche del carnefice, la lucida radiografia dei suoi impulsi tortuosamente contraddittori.
Il testo descrive l'efferato gesto di Sesto Tarquinio, il figlio dell'ultimo re di Roma: dopo avere sentito lodare, durante l'assedio di Ardea, la bellezza e la virtù della moglie di uno dei capi dell'esercito, Collatino, l'uomo fu preso da una tale smania di possederla da lasciare di nascosto l'accampamento per introdursi nottetempo nella casa di lei e piegarla con le minacce e col ricatto, provocandone il suicidio. La sua fine fu la causa della rivolta popolare che portò alla caduta della monarchia.
I versi shakesperiani, dotati di una forza poetica davvero sconvolgente, cui forse non approdano neppure le opere teatrali maggiori, inquadrano l'episodio da una doppia prospettiva: la parte più consistente è l'incalzante invettiva della donna contro il suo aggressore, contro la notte, contro l'occasione, una tesa, possente orazione in cui arriva persino a identificarsi con le vittime di Troia. Ma i brani più sorprendenti per capacità d'analisi e profondità introspettiva sono quelli iniziali dedicati alla psiche infuocata di Tarquinio, all'atroce consapevolezza con cui egli sente la propria vergogna, l'indegnità del proprio desiderio, ma non può fare nulla per trattenerlo.
Malosti, che già aveva efficacemente allestito un altro poemetto di Shakespeare, Venere e Adone, evidenzia questi stati d'animo in una sorta di ossessivo rituale dello stupro: in uno spazio fuori dal tempo, fra un paio di seggioloni d'epoca, un vecchio frigorifero, un baule da teatro – col manichino di un cadavere femminile in primo piano – Tarquinio alternativamente si dibatte nei propri dubbi e turbamenti e poi riprende febbrilmente a inseguire la sua preda, la schiaccia a terra, la sottomette anche fisicamente. Certi contatti sessuali che le impone sono improntati a un realismo quasi imbarazzante.
La violenza dei corpi è tuttavia poca cosa di fronte all'immagine squassante di Lucrezia che, rivestita di un moderno tailleur nero, il volto pallido, gli occhi arrossati, pronuncia al microfono il suo raggelante atto d'accusa in un crescendo verbale destinato a culminare nel suicidio: lei però – per un'acuta intuizione registica – non si trafigge, ma sgozza metaforicamente l'ombra di Tarquinio, come se dare la morte a se stessa fosse un modo per colpire colui che l'ha spinta a farlo, come se in quell'istante il persecutore e la perseguitata diventassero paradossalmente una sola persona.
All'acre effetto dell'insieme concorre l'intensa prova di ciascuno degli interpreti: Malosti in primo luogo, che da un tavolo in un angolo tesse con fosco sarcasmo il filo della narrazione, e i due giovani neodiplomati della scuola dello Stabile di Torino, Jacopo Squizzato e la struggente eppure altera Alice Spisa.
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Lo stupro di Lucrezia, di William Shakespeare, regia di Valter Malosti, visto al Teatro i di Milano

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