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Questo articolo è stato pubblicato il 23 dicembre 2012 alle ore 08:15.

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Il Piccolo Teatro di Milano torna a essere il tempio del vizio, con l'allestimento di un'altra opera di Rafael Spregelburd ispirata ai peccati della Ruota di Hieronymus Bosch. Argentino, classe 1970, già definito il «Pinter tropicale», Spregelburd è «quanto di più veramente contemporaneo ci sia», ha affermato Luca Ronconi che dirigerà Il Panico dal 15 gennaio, in attesa dell'anteprima mondiale di Spam al Napoli Teatro Festival il 7 giugno. «Ronconi mi farà arrossire con i suoi elogi», chiosa il drammaturgo del teatro post-scientifico. «La drammaturgia ambisce alla creazione di oggetti vivi, di opere che si comportino come organismi: ho trovato più strumenti di costruzione formale nei libri di biologia piuttosto che nei manuali di drammaturgia o critica letteraria. Le mie opere si comportano come frattali. La cosiddetta "teoria del caos", meglio detta "scienza della totalità", ha ispirato il mio teatro più recente, grazie anche alla definizione di catastrofe. Il modello tragico agonizza: da Beckett in poi, passando per Cechov, Stoppard, Pinter, il destino dell'uomo non è più solo tragico, è anche – e fondamentalmente – ridicolo. Nella tragedia gli effetti seguono le cause e i personaggi marciano come bestie verso la propria fine, come Macbeth, il detective Edipo, il dubbioso Amleto. Invece, verso dove marciano Vladimiro ed Estragone? O Anna, Kate e Deeley di Vecchi tempi o Zio Vanja? Non sarà che forse non stanno andando da nessuna parte? Nella catastrofe le cose accadono a una velocità tale che la ragione non riesce a catturarle; gli effetti sotterrano le cause e appaiono come puri accadimenti».
Qui l'autore si diverte a mescolare alto e basso, cultura classica e pop, come già nella soap teatrale Bizarra. «Voi europei – spiega – avete categorie molto distinte: un'arte alta (l'opera, il balletto, le arti visive, il teatro a volte), un'arte bassa (il folklore, le discipline amatoriali, le fiction televisive) e una categoria ancora più strana, l'intrattenimento. Nei Paesi giovani c'è un forte sincretismo fra tradizioni alte e basse. I modelli della grande arte esistono, ma sono sistematicamente parodiati, dal momento che non ci appartengono completamente (appartengono ad altri, alle capitali dell'Impero). Per me queste categorie non esistono. Vedo tante possibilità di commozione estetica nella serie Mad Men come nella pittura di Caravaggio. "Intrattenere" significa "tenere-tra", cioè "tenere sul confine, il luogo di passaggio tra mito e logos". Così nel Panico compaiono molte espressioni formali bastarde: le superstizioni popolari, i piani neoliberali per l'economia, la "cattiva letteratura", il senso delle arti, la ricerca cieca dell'artista, l'amore filiale, l'enigma del sesso, l'irreversibilità della morte».
Il Panico è una commedia quasi horror in cui vivi e morti si incontrano, provando lo stesso sentimento di spaesamento e terrore. Sottotraccia, sono molti i riferimenti alla crisi finanziaria argentina. Questa esperienza può insegnare qualcosa all'Europa? «La periferia non può insegnare nulla ai centri. Il filo si è spezzato dieci anni fa e tuttavia Europa e Stati Uniti non hanno spostato di una virgola il loro percorso verso il baratro. Il capitalismo produce crisi cicliche, da cui esce attraverso sangue e guerre, per poter riordinare il panico globale. Io non so come sarà il futuro dell'amata Italia. Il mio teatro può insegnare poco, però può offrire uno specchio deformante». Può definirsi, quindi, morale o politico? «Sembrerebbe che la morale sia sempre il "tema" del teatro. Cosa avrebbe dovuto fare Edipo? La sofferente Antigone avrebbe dovuto seppellire suo fratello? Le domande sottintendono sempre una presa di posizione morale. Tuttavia, il teatro è profondamente "amorale", che non vuol dire "immorale", anzi: qui la morale è osservata da molteplici punti di vista e ogni punto di vista può avere ragione. Il teatro evidenzia sempre che la morale "corretta" di solito non è altro che quella costruita dal potere di turno. Nelle crepe prodotte dall'arte, si possono vedere le fratture di tutti i dogmi e che il mondo potrebbe essere molto diverso da come viene presentato».
Persino la morte, oggi che viene banalizzata, ostentata, ridicolizzata, sembrerebbe essere defunta. «Non abbiamo informazioni sulla nostra morte, quindi parlarne non è altro che mettere una scritta su una scatola enorme, chiusa, intrigante. Che ognuno faccia quel che può con la sua scatola, vale tutto. La si può banalizzare, ridicolizzare, interrogare, chiamare, rappresentare, prenderla in giro. Fa lo stesso. La cosa più importante è – credo – rispettare la vita. Che è un miracolo. E che è una sola».
Ma è davvero possibile «seppellire i nostri morti»? «Nel mio Paese, dopo una dittatura che ha lasciato 30mila morti e desaparecidos, questa frase implica rinunciare a chiedere giustizia per loro: è il pugnale più affilato per noi argentini. No, non bisogna ancora seppellire quei morti. Quei morti vivranno per sempre nella forma in cui parliamo la nostra lingua».
Nella pièce anche i defunti hanno difficoltà a comprendere la propria condizione, a volte sembrano più smarriti dei vivi. Quando il protagonista capisce di essere morto? «Probabilmente mai. Ogni volta che sembra rendersene conto è obbligato a dimenticarsene. Com'è triste il suo destino. E forse anche il nostro: quante prove possiamo esibire di non essere morti e di non saperlo?».
Nella numinosa prefazione Spregelburd scrive: «L'orrore del reincontro fra vivi e morti è immenso. È la stessa paura di Orfeo: la paura di poter recuperare, all'improvviso, tutto ciò che si è amato ed era perduto». Il mito ha una presenza ingombrante nel Panico, da Edipo alle divinità egizie. Come fare i conti con l'orrore del passato (il "tedesco" come lingua donata "ai barbari" pare un riferimento all'Olocausto)? «Fortunatamente tutte queste associazioni o interpretazioni si possono fare perché io non le faccio, non le forzo. L'opera è un tessuto denso e opaco dal quale lo spettatore, anche il critico, potrà estrarre i suoi riferimenti. Il mio lavoro è semplicemente quello di garantire la vitalità di questa molteplice interpretazione, senza mai chiuderla. Chiamare i tedeschi "barbari" è allo stesso tempo uno scherzo e un'angosciante accusa che il destino ha voluto far pesare sulle loro bionde teste».

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