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Questo articolo è stato pubblicato il 06 gennaio 2013 alle ore 08:19.

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Licht von Osten, «luce dal l'Oriente»: così s'intitolava un libro che il teologo e papirologo tedesco Adolf Deissmann aveva pubblicato nel 1908, suscitando un interesse inatteso, tanto che il testo fu riedito quattro volte e tradotto subito in inglese e svedese. L'Oriente a cui faceva riferimento lo studioso era quello a noi vicino ove il cristianesimo era sbocciato, un terreno arido climaticamente ma fertile culturalmente. Da questa luce vorremmo qui lasciarci un po' avvolgere, selezionando alcuni volumi che esplorano quell'orizzonte ora molto più variegato e, purtroppo, non di rado insanguinato. Inizieremo con due saggi che potrebbero accompagnare simbolicamente l'incipit e l'explicit della vita terrena di Gesù Cristo.
Infatti, se leggiamo la seconda pagina del Vangelo di Matteo, ci imbattiamo in questa nota storica: «Nato Gesù a Betlemme di Giudea, al tempo del re Erode» e poco dopo si apre il sipario su quella tragica «strage degli innocenti» che Giotto ha rappresentato in modo emozionante nella Cappella degli Scrovegni di Padova e che – tanto per fare anche un esempio letterario – Péguy ha cantato nel Mistero dei Santi Innocenti (1912). Ebbene, questo sovrano, che avrebbe meritato il titolo di «Terribile» per il fiume di sangue che fece scorrere attorno al suo trono, è stato invece consegnato alla storia con l'appellativo di «Grande» perché fu uno straordinario costruttore: non per nulla l'ampio studio che Ehud Netzer, famoso archeologo israeliano scomparso nel 2010, dedica all'"architettura di Erode" reca come sottotitolo Il grande costruttore.
Per chi, come me, ha visitato e soggiornato decine e decine di volte in Israele, quegli edifici si stampano ancora nella memoria con tutta la loro monumentalità e il loro fascino, nonostante le ferite e la polvere degli oltre duemila anni trascorsi: dall'arditissimo palazzo di Masada ai complessi edilizi di Gerico, Samaria e Sebaste; dal tempio di Gerusalemme frequentato anche da Gesù, e ora affidato solo alla mirabile reliquia del cosiddetto Muro del Pianto, fino a quell'impressionante mausoleo-memoriale dell'Herodion, simile a un cratere vulcanico al cui interno si celano meraviglie. Di queste e di altre costruzioni minori il volume di Netzer non è solo un'ideale guida per la loro visita, ma è anche la straordinaria evocazione della storia e delle vicende che in esse aleggiarono e si consumarono.
Dicevamo che è possibile accompagnare anche la fine dell'esistenza di Cristo con un altro testo: naturalmente esso ci rimanda al Santo Sepolcro di Gerusalemme nel quale fu deposto il cadavere di Gesù e che i Greci Ortodossi chiamano invece Anástasis, cioè «Risurrezione». Possente e complicata struttura architettonica, tormentata non solo a livello edilizio, a partire dall'Elena costantiniana fino ai crociati e oltre, ma anche dalle divisioni delle Chiese cristiane – che rendono la mappa di quel tempio un vero e proprio puzzle di proprietà, di giurisdizioni, di riti e di voci –, il S. Sepolcro è stato nei secoli un corpo vivo di liturgie, di memorie, di documenti, di racconti, la cui biografia è ricostruita ora da Renata Salvarani. La sua è una coloratissima diacronia che parte dal cantiere costantiniano, passa attraverso la devastazione persiana del 614 e la ricostruzione del vescovo Modesto, si inoltra nella dominazione musulmana fatimita seguita alla distruzione del 1099, apre l'orizzonte crociato coi Latini per approdare a quel 1291 allorché sventolò sul S. Sepolcro il vessillo di Saladino.
Per questa via entriamo in un altro ambito del Vicino Oriente, quello ove si leva forte la voce dell'Islam. Purtroppo la tonalità a cui si è abituati obbedisce al grido sovreccitato del fondamentalismo aggressivo. In realtà, la cultura e la spiritualità araba hanno alle spalle un tesoro di poesia e fede.
Lo esemplifichiamo attraverso due attestazioni. La prima è frutto dell'acribia di due arabisti di vaglia, François Déroche, un'autorità in materia di codicologia araba, e Valentina Sagaria Rossi che cura il prezioso fondo orientale della Biblioteca dell'Accademia dei Lincei. Il loro è, in verità, un manuale a prima vista tecnico che offre tutta la strumentazione e l'attrezzatura necessaria per inoltrarsi nel piccolo oceano dei «manoscritti in caratteri arabi». Si parte, quindi, dagli aspetti più esterni e materiali riguardanti l'allestimento di un codice e si approda al testo in senso stretto con la sua scrittura, l'articolazione della pagina, l'ornamentazione e così via.
Chi, però, anche se non specialista, si addentra in questo trattato, si trasforma presto in un vero e proprio pellegrino in un mondo di meraviglie talora microscopiche, sempre affascinanti anche a causa della straordinaria competenza degli autori e della limpidità del loro dettato. Essendo stato per anni custode del mirabile patrimonio codicologico arabo che la Biblioteca Ambrosiana detiene per merito del suo fondatore, il card. Federico Borromeo, e di un suo grande prefetto, Achille Ratti, il futuro Pio XI, riesco attraverso queste pagine a ritrovare un mondo che ho lasciato alle spalle con intensa nostalgia, rivivendolo ora da profano. È, questo, un modo anche per sfatare lo stereotipo secondo il quale il mondo arabo sarebbe solo fondamentalista e incolto. In quest'opera di demitizzazione ci può aiutare la seconda testimonianza, quella di un mistico indimenticabile, il persiano al-Hallaj, morto crocifisso nel 922 a Bagdad, un emblema esaltante del sufismo più alto. Un famoso orientalista francese, Louis Massignon, morto nel 1962, autore di una monumentale tetralogia dedicata alla "passione" di questo mistico dal profilo biografico per certi versi assonante con quello di Cristo, presenta gli akhbar, cioè le sue «notizie» raccolte da un discepolo, una sorta di Vangelo di al-Hallaj, come le definisce la curatrice Luisa Orelli. È un tuffo simbolico in un orizzonte di luce: «Anima mia, consolati: rinuncia e solitudine sono sorgente di gloria. La luce è sospesa nella nicchia della rivelazione e dell'illuminazione. La parte si appoggia alla parte, il tutto anela al tutto».

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