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Questo articolo è stato pubblicato il 06 gennaio 2013 alle ore 08:19.

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A cinquant'anni dall'apertura dei lavori del Concilio Vaticano II mai ci sarebbe immaginati di aver timore dell'arte. Sì, perché una delle eredità di quel dettato non ancora metabolizzate dalla Chiesa e dalla sua comunità è proprio il rapporto con l'arte contemporanea e il ruolo dell'architettura in quel passaggio così delicato dell'adeguamento liturgico.
Questo processo di rinnovamento celebrativo passa attraverso un progetto seguito da un liturgista che secondo le esigenze della riforma abbracci la conservazione, la ricerca di adeguamento a nuove esigenze e soprattutto promuova nuove opere corrispondenti all'indole di ogni epoca, come indicato nei Principi e norme per l'uso del Messale Romano n. 253-254.
Lo scorso marzo a Reggio Emilia s'inaugura una coraggiosa esperienza che dopo il restauro della cattedrale riscrive la geografia liturgica dello spazio rompendo l'inerzia del presbiterio plenario. La sede del celebrante, qui anche cattedra vescovile è posizionata nell'aula in rapporto con l'assemblea e con il pulpito, ora anche ambone, mentre solo l'altare rimane insediato nel presbiterio. L'altro segno fondamentale di questa scommessa è stato affidare la realizzazione di questi quattro elementi ad artisti che occupano solidamente un ruolo nel presente dell'arte contemporanea.
Le personalità del secondo Novecento coinvolte sono state Claudio Parmiggiani per l'altare che ha trasformato in mensa due macigni d'epoca romana, Ettore Spalletti per il cero pasquale dal forte impatto simbolico, Hidetoshi Nagasawa che ha disegnato una rispettosa scalinata al pulpito trasformato in ambone e infine Jannis Kounellis, autore della sede episcopale.
Questa sede è stata rimossa. Da poche settimane non è più presente in cattedrale e la manomissione è avvenuta in prossimità dell'insediamento del nuovo vescovo. La sparizione, non per furto, ha disinnescato la forza armonica dell'intero adeguamento che «L'Osservatore Romano» in un efficace fondo di Giuliano Zanchi sulla dibattuta esperienza emiliana scriveva di qualcosa che «scansava i convenzionali e scintillanti referenti estetici sul sacro, sta richiedendo l'impegnativo esercizio spirituale di una conversione dello sguardo e di una nuova sapienza del celebrare. Sono fatiche che richiedono i loro tempi e che comportano le loro fatiche». Si perché l'intervento di Kounellis, un podio fatto di vecchie travi sul quale poggiava un scranno di metallo, ora custodito in chissà quale magazzino diocesano, per dirla ancora con Zanchi era «eloquenza quanto mai plastica , esige di essere e di apparire autorevole perché disinteressato, credibile perché spassionato, affidabile perché severo». Questa riflessione sulla sparizione del Kounellis è amara: un esperimento ancora da capire è stato sottratto al dibattito proprio in un momento in cui la Chiesa è tornata a parlare con gli artisti e loro a volersi misurare con quell'estetica. Qualcuno ha voluto ridurre questo adeguamento liturgico a un'anomalia anticonvenzionale non vedendola come un simbolo del ministero, come un'occasione. Sarei ingenuo se pensassi che il caso di Reggio Emilia fosse un risultato olimpico, le strade d'incontro tra arte e liturgia sono ancora lunghe, tuttavia la rimozione del l'esperimento allontana ancora una volta la questione.
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