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Questo articolo è stato pubblicato il 11 gennaio 2013 alle ore 18:23.

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Muccino senior, i fratelli Wachowski, l'emergente Nicchiarelli. Sulla carta ci sarebbe di che fregarsi le mani di fronte a un programma così ricco, ma alla prova dei fatti questo week-end si rivela più deludente. Anche per le alte aspettative che si riversavano su certi titoli.

Partiamo dal più chiacchierato, dal cineasta che dalla tv al web, da Fabio Fazio ad Antonello Piroso, non ha lesinato critiche alla Hollywood diabolica per difendersi dal primo flop della sua carriera. Almeno negli Stati Uniti, perché in Italia Gabriele Muccino potrebbe ritrovare comunque un pubblico affezionato che lo apprezza da sempre. Ma l'autore dei potenti e vibranti Ricordati di me e La ricerca della felicità, con Quello che so sull'amore sembra aver perso il tocco magico che nel suo Paese e oltreoceano aveva fin qui conquistato tutti.

Dopo gli incassi record in Italia, il mezzo miliardo di dollari in giro per il mondo con il dittico insieme a Will Smith (pochi ricordano che il discusso Sette anime ha portato a casa 170 milioni), il regista romano si dedica a una commedia sentimentale melodrammatica in cui pettina Gerard Butler come il fratello Silvio e lo fa diventare il centro di una tempesta di sentimenti. Quelli delle casalinghe disperate Uma Thurman, Catherine Zeta-Jones, Judy Greer e persino dell'ex moglie Jessica Biel – un poker di donne servito – che tentano in ogni modo di concupirlo, e quello di una famiglia lasciata mentre era ancora calciatore scozzese di successo e ritrovata nella provincia americana da allenatore giovanile aspirante commentatore. Un bell'immaturo, oggetto sessuale per forza e sentimentale per copione.

Tutto sembra poco spontaneo in questa storia, la grande capacità di creare una naturale empatia che è il tratto fondante dell'arte mucciniana qui diventa una piatta e sciatta esposizione di corpi, sorrisi e buoni propositi. Laddove tecnicamente non aveva mai tradito, ci troviamo una macchina da presa stanca, poco inventiva, che non ha guizzi e che segue la trama esilissima senza mai entusiasmarci. Anche un Dennis Quaid fuori fuoco rispetto a questa comunità così perfetta e ipocrita diventa subito una macchietta, come tutte le pedine di questa borghesissima cittadina. Un'opera, questa, che non rende onore al talento di chi l'ha diretta. E non lo fa neanche Cloud Atlas, il vero grande ritorno dei Wachowski (Laurence, conosciuto come Larry, nel frattempo, è diventato Lana) dopo la saga di Matrix. La lunga vacanza inframezzata solo dalla produzione del bellissimo V per Vendetta e dalla direzione del gustoso e psichedelico gioco Speed Racer, si interrompe con la regia, condivisa con Tom Tykwer, di un papocchio che mette insieme la loro innata capacità di raccogliere input diversi. In questo caso pescano nell'immaginario storico, filmico e spirituale, come sempre fatto, ma rubacchiano, di fatto, anche ai colleghi Nolan e Van Dormael. Il primo, come loro, è un ottimo bluffatore, il secondo è un genio. Tutti loro viaggiano nel tempo, utilizzano i loro attori in più dimensioni, raccontano storie parallele che viaggiano su un unico binario: un uomo solo contro un grande nemico, la visione della rivoluzione dell'individuo come riscatto della collettività. Di fatto lo stesso principio di Matrix e infatti, non a caso, l'episodio principale, quello della ragazza artificio che si ribella e si immola, protetta da una sorta di sosia asiatico di Keanu Reeves, è quasi gemellare al loro capolavoro.

Ma non basta quest'idealismo, un trucco pesante e le ambientazioni suggestive a rendere grande Cloud Atlas. Non servono neanche gli attori di nome: Tom Hanks interpreta, come gli altri, vari personaggi e riesce in un record, essere fuori parte in tutti. Meglio Hugo Weaving, ancora una volta creta nelle mani dei Wachowski, mentre Halle Berry illumina della sua bellezza tutto il film, risultando affascinante anche come uomo. Meglio Jim Sturgess e interessante Hugh Grant, a cui consiglieremmo di fare più spesso il cattivo. Ma l'opera rimane titanica e presuntuosa, incompiuta e inconcludente. Si appoggia su alcune belle intuizioni visive, su alcuni momenti forti, per poi venderci filosofia new age a buon mercato. Peccato, perché se dei sei film messi assieme ne avessero scelto uno, i tre registi, ora staremmo parlando di un gioiello. Forse.

Non lo è, di sicuro, La scoperta dell'alba, che di piani temporali ne ha "solo" due. Legati dal filo di un vecchio telefono con cui Margherita Buy, dalla casa al mare in cui passava le sue estati quand'era piccola, chiama la se stessa bambina. Difficile, francamente, uscire indenni da una premessa così, e Susanna Nicchiarelli ha la sfortuna di dover basare la sua opera sul libro di Veltroni e di scivolare dalla sua prosa fabiovolesca alle immagini. Piace la ricostruzione colorata e buffa, quasi camp, ma alla fine, del quadro, rimane solo quella cornice. La sceneggiatura risulta inadeguata, i dialoghi improbabili, la storia quasi grottesca. Anche gli attori sembrano crederci poco – tranne, forse, la Nicchiarelli stessa, in una buona interpretazione attoriale – e così La scoperta dell'alba non prende mai il volo. E anzi si attorciglia su un intimismo di famiglia che non illumina, come Cosmonauta (che pur facendolo a intermittenza, era più riuscito), anche il resto.

Salva questo fine settimana A royal weekend. Non è un gioco di parole, ma il buon film di Roger Michell che decide di raccontare la speciale relationship tra America e Inghilterra con i giorni passati insieme dal balbuziente Re Giorgio VI e Franklin Delano Roosvelt. Giorni che dovevano cementare un'alleanza non scontata prima della Seconda Guerra Mondiale e che viviamo dal buco della serratura, con gli occhi della cugina-amante del presidente degli Stati Uniti, Laura Linney. Filmetto gradevole, con intuizioni ottime, politiche e di sceneggiatura, si avvale di un Bill Murray in gran forma. Non passerà alla storia quest'opera, come ha fatto quell'incontro, ma allieta lo spettatore per tutta la sua durata. E anche la scelta di trattare un punto cruciale della storia moderna con la leggerezza alla Notting Hill del suo regista, alla fine, risulta vincente.

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