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Questo articolo è stato pubblicato il 13 gennaio 2013 alle ore 08:18.

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Ci sono casi in cui l'arte cerca di accreditarsi come attività politica, senza però il coraggio di scendere nell'arena. Ce ne sono altri in cui qualcuno cerca di far politica ma la cosa si rivela impraticabile. Dunque ci si rivolge all'arte, senza paura di parole conservatrici come forma o scultura, anzi cercando con esse di lanciare un messaggio civile. È successo a Jimmie Durham (1940, Arkasas), il cherokee dagli occhi azzurri che ora espone a Palazzo Reale di Napoli.
Per vent'anni, da giovane, ha lavorato in organizzazioni per i diritti civili statunitensi e per l'American Indian Movement, diventando anche rappresentante presso le Nazioni Unite. Ma dopo le divisioni interne del movimento, ancor più gravi di delusioni esterne che hanno decimato i militanti, ha rivolto altrove la sua attenzione. La battaglia di Durham è diventata più profonda: decomporre i valori inviolabili imposti dai vincitori. Tutti, di ogni epoca. Giocare a rompere le regole, a costo di studiare matematica come ha fatto nel tentativo di capire se anch'essa fosse una forma di coercizione. Usare il senso dell'umorismo per ribaltare il senso comune. E usare il senso comune per ribaltare alcune modalità dell'arte d'avanguardia, diventata a sua volta canonica.
Pochi artisti sono stati più ascoltati di lui da una critica litigiosa, ma unanime sul suo conto: ha partecipato a due Documenta, quattro Biennali di Venezia, a molte mostre nei maggiori musei d'Europa – dove ha scelto di vivere dopo avere abbandonato gli Stati Uniti in modo polemico – e anche nel tempio stesso dell'arte statunitense, il Whitney Museum.
La mostra napoletana è comunicata malissimo. Sono lontane le installazioni natalizie e milionarie a Piazza Plebiscito, all'aperto o sotto il portico di San Francesco di Paola. Ma quello che può sembrare un difetto, dopo gli anni in cui l'arte contemporanea veniva usata per comunicare la magnanimità dell'ultimo sovrano, diventa un pregio forse involontario: l'antimonumentalità e l'antiretorica sono le chiavi di accesso al lavoro di Durham. Una locandina introduce a locali seminascosti, anche se connotati da archi e colonne, in un Palazzo che rievoca re normanni, angioini, aragonesi e borboni. Qui il potere è venuto e passato come l'andirivieni delle onde che si sentono in lontananza. La presenza davvero fissa è la pietra lavica, emanazione del Vesuvio in una città che teme, da sempre e paradossalmente, delle urgenze più gravi. Amica di palme e palazzi, la lava pavimenta il saliscendi di viali, vicoli e piazze. Durham l'ha scelta per le sue sculture come altrove aveva scelto il basalto (nel 2007 ha fatto massacrare il tetto di un'automobile Chrisler da un masso enorme) o i piccole pietre (nel 1996 ha distrutto a sassate un frigorifero, simbolo del design pseudo medicale che ha invaso le abitazioni).
Qui a Napoli la lava si associa a volumi che provengono da olivi pugliesi, da alberi tropicali e da noci del Molise. Tutti raccontano l'andamento tortuoso della natura nei climi più favorevoli alla vita: c'è del moto, un ribollire tellurico che gli umani ricalcano ma non determinano. Le sculture si accostano le une alle altre quasi fossero alberi esse stesse. Poi ci sono anche Italo Calvino con i suoi motti di spirito, l'assemblage di Picasso e Duchamp, il piedistallo interpretato e tradito da Brancusi, il mutismo lucido di Eduardo nelle Voci di dentro. L'artista sembra avere anche capito che il vulcano più pervasivo del luogo sono quei Campi Flegrei che ospitano addirittura una fermata della metropolitana, dove l'odore degli eucaliptus si mescola a quello dello zolfo sprigionato da pozzanghere ribollenti.
Durham, dalla salute malferma e aiutato nell'installazione dal giovane svedese Max Ocborn, non sarà in grado per molto tempo di darci una nuova mostra fatta con le sue mani. Ciò rende questa ancora più preziosa. Sembra dirci, parafrasando il titolo di un noto romanzo sugli indiani, «non seppellite il vostro cuore» dove siete nati. Anzi, guardatevi intorno con la curiosità di chi sa dimenticare le proprie origini e capire quelle degli altri. Come racconta la serie di maschere dai tratti di Maria Thereza Alves, artista e compagna di Jimmie, che noi e l'altro possiamo capirci anche partendo da distanze come quella tra l'Arkansas e Napoli.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Jimmie Durham, Wood, Stone
and Friends, Napoli, Palazzo Reale,
fino al 27 febbraio

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