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Questo articolo è stato pubblicato il 17 gennaio 2013 alle ore 16:36.

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Django UnchainedDjango Unchained

di Andrea Chimento

Tim Burton, Quentin Tarantino e Olivier Assayas: uno straordinario tris d'assi, in grado di far venire l'acquolina in bocca a qualsiasi appassionato. La nostra preferenza, un po' a sorpresa, va però al regista transalpino.

A quattro anni di distanza da «L'heure d'été» (mai uscito nelle nostre sale), Assayas torna a realizzare un lungometraggio per il grande schermo: «Qualcosa nell'aria».
Presentato in concorso all'ultima Mostra di Venezia, dove ha vinto il premio per la miglior sceneggiatura, il film è ambientato nella Francia dei primi anni '70: Gilles è un liceale come tanti, indeciso tra l'impegno politico nei gruppi collettivi e un percorso di formazione individuale. Contrario alle idee assolutiste di molti suoi coetanei, cercherà nell'arte la via per realizzare i suoi sogni.

Opera fortemente personale e autobiografica, «Qualcosa nell'aria» è un viaggio tra le contraddizioni, le speranze e le paure dei giovani del post '68: non a caso il titolo originale è «Après mai», dopo maggio.
Lo smarrimento, causato dalla pesante incertezza sul futuro, è perfettamente rappresentato da un regista che unisce toni nostalgici a feroci critiche su alcune ideologie del periodo. Assayas ha grande rigore storico, ma il suo principale interesse è quello di raggiungere il Cinema (con la C maiuscola): farlo scoprire al suo protagonista e far capire allo spettatore che in quegli anni anche la settima arte è stata chiamata a una scelta di campo, tra una via politica in senso stretto e una legata alla sperimentazione artistica. Un bivio che si trova alla base di un film capace di emozionare, coinvolgere e far riflettere ancora oggi, perché quell'"aria" di ricerca di sé e di mal celata insicurezza non si è ancora dissolta del tutto.

Da un evento storico, la schiavitù negli Stati Uniti, prende spunto anche Quentin Tarantino per «Django Unchained», il suo ottavo lungometraggio, con protagonisti Christoph Waltz, Jamie Foxx e Leonardo Di Caprio.
Ambientato alla vigilia della guerra civile, il film si apre con la liberazione dello schiavo Django (Foxx) da parte del dottor King Schultz (Waltz), un cacciatore di taglie che, in cambio della totale emancipazione, gli chiede aiuto per riconoscere alcune delle sue prossime vittime.
L'operazione ha successo, ma i due decidono di continuare a lavorare insieme: l'obiettivo di Django è quello di salvare Broomhilda, sua moglie, ora alle dipendenze di un potente possidente negriero, Calvin Candie (Di Caprio). Sorta di onnivoro western citazionista (si inizia con lo spaghetti italiano, si passa ai classici americani e si arriva persino al filone della blaxploitation), «Django Unchained» parte con un ottimo ritmo, sia nei dialoghi che nel montaggio, ma rischia di perdersi in una seconda parte eccessivamente verbosa, che sfocia in un finale prolisso e ridondante.
Tarantino sfodera diversi tocchi di classe (la sequenza del Ku Klux Klan in primis) ma, nel complesso, il film lascia ben poco allo spettatore.
All'interno di un cast in ottima forma, oltre al sempre efficace Christoph Waltz, da segnalare l'intensa performance di Samuel L.Jackson nei panni del capo degli schiavi di Candie.

Titolo fortemente citazionista (in questo caso, il richiamo principale è agli horror della Universal degli anni '30) è «Frankenweenie», il ritorno di Tim Burton all'animazione stop-motion dopo il successo de «La sposa cadavere» (2005). Remake di un omonimo e toccante mediometraggio in live-action, realizzato da Burton nel 1984, «Frankenweenie» racconta del profondo rapporto d'amicizia tra il piccolo Victor e il suo cane Sparky. Quando quest'ultimo viene investito da un'automobile, il suo padroncino sfrutterà il potere della scienza per riportarlo in vita, seppur con qualche lieve differenza.
Dopo il (mezzo) passo falso di «Dark Shadows», «Frankenweenie» è una boccata d'aria fresca per i fan del regista americano che, fin dall'ottimo incipit, possono ritrovarne l'inconfondibile poetica.
Certo, il valore narrativo è di poco conto (viste le minime aggiunte e variazioni rispetto all'originale), eppure il film colpisce per il coraggio della struttura (un lavoro d'animazione in bianco e nero, con riferimenti difficilmente comprensibili ai più piccoli), per la coerenza di un autore sempre fedele a se stesso e per una stop-motion straordinariamente fluida e davvero efficace.
Insieme a «Ribelle-The Brave» è il grande favorito per vincere l'Oscar nella sua categoria.

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