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Questo articolo è stato pubblicato il 20 gennaio 2013 alle ore 14:02.

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È «all'insegna del paradosso» il rapporto tra Pasolini e il teatro, titolo di un'antologia curata da Stefano Casi, Angela Felice e Gerardo Guccini, nata da convegni a Casarsa e Bologna a fine 2010, che hanno coinvolto studiosi, registi e critici.
Il volume si articola in sette ampi capitoli e tenta di tematizzare il corpus drammatico pasoliniano attraverso le tragedie e il Manifesto per un nuovo teatro, una summa della sua poetica del 1968: in ogni caso, si tratta di un teatro alternativo «sia alla cultura delle avanguardie ("teatro dell'urlo") che alle prassi istituzionalizzate del narrare attraverso personaggi interpretati ("teatro della chiacchiera")». È curioso ricordare che l'esordio letterario di Pasolini, a soli 16 anni, fu proprio un dramma, La gloria, che vinse i Ludi Juveniles organizzati dal fascistissimo Ministero dell'Educazione: già qui, ricorda Daniele Micheluz, «vengono disseminati abbondantemente quei temi che caratterizzeranno tutta l'opera pasoliniana, come la funzione intima e civile della poesia, la figura della madre protettiva, la morte, la condanna pubblica, il sacrificio, l'identificazione con Cristo, il rapporto con il Potere». Persino Teorema nacque come testo teatrale prima di diventare romanzo e film.
«Per Pasolini», puntualizza Stefano Casi, «il teatro è lo spazio della sperimentazione programmata, e dunque dell'utopia»: non a caso il debutto di Orgia sul palcoscenico torinese, diretto dallo stesso autore, fu un flop, accolto nella generale indifferenza e incomprensione, racconta Italo Moscati.
Il poeta se ne assunse tutta la responsabilità: «Considero il teatro, così come lo faccio io, solo una particolare forma di letteratura», «un misto di "poesia letta a voce alta" e di "convenzione teatrale"». Anche sul palco, Pasolini fu corsaro, un «ossesso/ che non cerca rimedi», che parla «come nel monologo del personaggio di una tragedia», impastando mito e antropologia, rito e versi.
Sulla rappresentabilità, o meno, delle sue opere si spendono alcuni registi che vi si sono cimentati, da Luca Ronconi, tra i primi allestitori negli anni Settanta (2 Calderón, Pilade, Affabulazione), ad Armando Punzo, che ha ricavato una rilettura di materiali con la sua Compagnia della Fortezza di detenuti del carcere (Elogio del disimpegno), a Federico Tiezzi, per cui «la disciplina di Pasolini tra disordine della visione e ordine del racconto è ferrea».
La lingua è «meta-erotica», a detta dello stesso drammaturgo: «Il cuore mi si induriva come un membro». Da qui, il parallelismo con Testori, stimato rivale: entrambi, chiosa Stefania Rimini, credevano «nella perentoria dizione della parola come sanguinante strumento di una rinnovata comunione con il pubblico». Compito del teatro è meditare «sul lacerto di carne sopra le assi del palcoscenico». Ma «resta ancora da capire se il sangue che macchia le loro pagine provenga dalla stessa ferita».
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Pasolini e il teatro, a cura di Stefano Casi, Angela Felice e Gerardo Guccini, Marsilio, pagg. 405

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