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Questo articolo è stato pubblicato il 20 gennaio 2013 alle ore 13:58.

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«Tra gli insegnamenti scientifici il primo posto nella formazione dell'intelletto giovanile lo hanno le matematiche, il cui insegnamento nelle scuole di preparazione alla cultura deve, insieme e alla pari con quello della lingua italiana, esercitare la funzione più importante e più efficace alla formazione della mente» si legge in un articolo di Giovanni Vailati sull'insegnamento della matematica nel "nuovo ginnasio riformato", apparso nel 1910. Vailati, di cui quest'anno ricorre il 150° della nascita, è una figura originale e troppo spesso dimenticata nel panorama scientifico e filosofico italiano dei primi anni del Novecento. «L'amico Vailati – ricordava Luigi Einaudi – era un dotto simile agli umanisti del Quattro e del Cinquecento; i quali passavano con facilità da un campo all'altro». Un uomo in grado di cogliere «i nessi tra scienze diverse», aggiungeva Einaudi ricordando le lunghe ore trascorse insieme nel Laboratorio di economia politica dell'Università «dinnanzi alle pagine dei Principi di economia pura del Walras. Credo che quello sia stato il solo tempo nel quale io, privo della pazienza necessaria a far miei i primi principi del calcolo, immaginai di aver capito non solo il testo in prosa ordinaria di Walras, di Pareto, di Jevons, di Barone, ma anche le dimostrazioni in linguaggio matematico».
Con la matematica Vailati era familiare dagli anni dell'università. Laureato a ventuno anni in ingegneria a Torino, e quattro anni dopo, in matematica prima di diventare assistente di Giuseppe Peano, il grande matematico e logico che a Torino sta dando vita a una vera e propria scuola. È «un maestro di logica», ricordava Einaudi, ma «sovratutto curioso di quelle che allora erano terre di nessuno». Tiene corsi di storia della meccanica su invito di Vito Volterra, si appassiona alle questioni di filosofia. Studia le opere di Sanders Peirce e dei pragmatisti americani. Entra in contatto con Franz Brentano e Ernst Mach. Collabora al «Leonardo», la rivista di Papini e Prezzolini, che al suo apparire nel 1903 saluta «come una vera festa intellettuale e artistica» rispetto a quelle vere e proprie «sputacchiere cerebrali» che sono a suo dire le riviste «cosiddette filosofiche» del tempo, improntate a un positivismo di vecchio stampo. Dal 1899 Vailati ha lasciato gli ambienti accademici torinesi per intraprendere la carriera di insegnante nelle scuole secondarie della penisola, da Siracusa e Bari a Como e Firenze dove è trasferito nel 1904. E l'anno seguente, su suggerimento di Gaetano Salvemini, viene chiamato a far parte della Commissione Reale per la Riforma delle Scuole Medie istituita dal ministro della Pubblica istruzione Leonardo Bianchi. È l'impegno che caratterizza l'attività di Vailati fino alla morte nel 1909. Agli occhi di Vailati, la scuola che si tratta di riformare è basata sull'apprendimento passivo, è «una palestra mnemonica» piuttosto che «un istituto di cultura intellettuale». Un luogo dove l'allievo è «troppo occupato a imparare (apprendere, accipere) e troppo poco a capire (comprendere, concipere)». Dove viene «considerato più come un recipiente da riempire che come un campo da seminare, una pianta da coltivare, un fuoco da eccitare». Non stupisce che «questo sistema di coltura intensiva» generi «negli alunni, e spesso nei più intelligenti, una tale ripugnanza a tutto ciò che sa di scuola o che abbia attinenza a ciò che vi si insegna, da far quasi ritenere una fortuna che nei programmi scolastici si dia tanta parte a ciò che non val la pena di essere saputo». Quella che Vailati ha in mente è una «scuola laboratorio», dove gli studenti non devono essere costretti a «imparare delle teorie prima di conoscere i fatti a cui esse si riferiscono, né sentir ripetere delle parole prima di essere in possesso degli elementi sensibili e concreti da cui per astrazione si può ottenere il loro significato».
Un luogo dove «all'allievo è dato il mezzo di addestrarsi, sotto la guida e il consiglio dell'insegnante, a sperimentare e a risolvere questioni, a misurare e soprattutto a "misurarsi" e a mettersi alla prova di fronte a ostacoli e difficoltà atte a provocare la sua sagacia e coltivare la sua iniziativa». Questo è tanto più vero nel caso della matematica. Affinché la matematica possa esercitare una «benefica azione» sulle intelligenze degli studenti, dice Vailati, «bisogna che essi intravvedano subito la mirabile funzione di questa disciplina come accrescitrice, non pure della mente, ma della coscienza e della dignità umana». Allo scopo, «gioverà dare alle enunciazioni stesse dei teoremi, quanto più è possibile, la forma di problemi». E nelle discussioni della Commissione Vailati si oppone (senza successo) all'istituzione di due tipi di liceo, uno umanistico, l'altro scientifico, che avrebbe compromesso «l'armonico sviluppo delle facoltà mentali che deve essere il primo obiettivo d'una educazione liberale». Altrimenti, l'esito sarebbe stato quello di «accentuare la divisione, esistente già in parte anche oggi, delle persone colte in due classi, l'una delle quali scrive e parla bene di quello che non sa e l'altra non sa parlare né scrivere convenientemente di quello che sa; da una parte cioè gli artefici della parola armoniosa e vuota, dall'altra gli scienziati dal linguaggio barbaro e dall'animo incolto». Non sembrano parole scritte più di un secolo fa.
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