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Questo articolo è stato pubblicato il 20 gennaio 2013 alle ore 14:03.

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Chi ha avuto la fortuna di vedere, quasi trent'anni fa, il colossale Ignorabimus, uno dei capolavori registici di Ronconi, ricorderà che lo spettacolo – al di là della mitica scena in muratura, al di là delle quattro attrici in ruoli maschili – trattava di sedute spiritiche, ectoplasmi, presenze occulte. Gli stessi argomenti tornano ora ne Il panico, ma in chiave opposta: se il testo di Arno Holz era infatti ispirato a un severo naturalismo, quello di Spregelburd è folle e visionario, se il primo era nero, funereo, il secondo è sospinto verso toni (al l'apparenza) derisori. Ma è molto consona all'autore argentino questa specularità inversa che scavalca tre decenni.
Anche Il panico, quinto capitolo dell'Eptalogia di Hieronymus Bosch, è costruito – come tutte le opere di Spregelburd – su trame diverse che si incastrano l'una nell'altra: in questo caso, di una donna coi suoi due figli alla ricerca della chiave perduta di una cassetta di sicurezza in cui è custodita l'eredità del marito, della sensitiva assoldata a questo scopo, di un ensemble di danzatrici che sta provando una coreografia incomprensibile, ma anche – variamente incrociate con queste – di un vecchio misteriosamente morto all'ospedale in seguito al morso di un cagnolino, e della padrona del cagnolino, in carcere per avere ucciso l'amante, che era l'uomo dell'eredità inaccessibile... Parallela a queste vicende per così dire terrene, ce n'è anche un'altra che invece riguarda la sfera dell'aldilà: fra madri piangenti, psicoterapeuti, agenti immobiliari si aggira una figura che i loro occhi non vedono, ed è il morto ammazzato, che però non sa di esserlo. A lui si aggiungerà poi un altro spettro inconsapevole, quello della coreografa perita frattanto in un incidente d'auto, e i loro destini all'improvviso convergeranno: lui leggeva il Libro dei Morti egizio, dove si parla della chiave di accesso al regno dei defunti, lei lo stava rappresentando, e quel balletto era forse proprio il luogo dell'incontro fra i vivi e i morti, ma nessuno di loro poteva accorgersene.
Due sono infatti i principali nuclei narrativi di questo complesso ma geniale meccanismo drammaturgico: da un lato c'è lo stridente contrasto fra l'esistenza quotidiana – con le miserie e le bassezze di un'umanità degradata, ridotta a caricatura – e la quiete del l'oblio concesso ai trapassati. Il tutto sullo sfondo della crisi argentina del 2001. Una battuta, in particolare, la dice lunga su questo aspetto: «in certe società organizzate intorno al capitalismo estremo non dovremmo più parlare di pazzia ma di mero adattamento».
Accanto a questo ricorre ossessivamente un altro tema, tipico di Spregelburd, che è appunto l'incapacità di comunicare, di indicare o riconoscere le cose più evidenti: l'agognata chiave, ad esempio, è nascosta in un posto che per gli abitanti della casa è «senza nome». La sensitiva lo intuisce, ma non viene ascoltata. Una delle danzatrici, Anabel, la chiave la trova, ma nessuno le bada, perché parla in modo strano. In generale, per l'autore, ad avvicinarsi di più alla verità è sempre chi ha maggiore difficoltà nell'esprimerla. Ne La stupidità, per citare un altro caso, una scoperta essenziale per l'umanità finisce in mano a un'afasica demente.
Ronconi ambienta l'azione in un astratto paesaggio di tendaggi bianchi, uno spazio onirico, mentale, o una specie di ideale palcoscenico interiore, lontano da qualunque contesto reale. In questa dimensione sospesa i personaggi – soprattutto i «vivi» – sono trasformati in maschere grottesche, stralunate, quasi più vicine a Copi che a Spregelburd. Ma il regista governa l'intricata materia con una maestria davvero prodigiosa, dipanando a meraviglia gli infiniti fili del racconto, e dosando alla perfezione i toni ironici e quelli pensosi, che verso la fine prenderanno via via sempre più piede.
Colpisce, ancora una volta, la sapienza con cui orchestra la maiuscola – e anche divertentissima – prova degli attori. Elena Ghiaurov, pur nel ruolo secondario della carcerata, vola alto: in certi momenti ricorda, non solo fisicamente, la Melato ne Il lutto si addice ad Elettra. Ma anche Maria Paiato tratteggia la madre con una precisione lucida, furiosa. Accanto a loro Valentina Picello, che pare recitare con le mani prima che con la voce, Sandra Toffolatti, irresistibile sensitiva, Manuela Mandracchia, Francesca Ciocchetti, e le altre. E poi il solito, eccellente Paolo Pierobon e il giovane Fabrizio Falco, che regge alla grande la parte del figlio nevrotico.
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Il panico di Rafael Spregelburd, regia di Luca Ronconi, Milano, Teatro Strehler, fino al 10 febbraio

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