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Questo articolo è stato pubblicato il 22 gennaio 2013 alle ore 20:54.

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Nella prima pagina del nuovo libro appena uscito del pianista Stefano Bollani, «Parliamo di Musica» (Mondadori, pagg.136, € 17). si legge quale co-autore, in un carattere di poco più piccolo, il nome del giornalista e produttore artistico Alberto Riva, assente sulla copertina. Subito il lettore che abbia familiarità con la musica contemporanea e con il jazz fa un rapido flash-back fino al 2004, quando fu pubblicato da Minimum Fax un libro del trombettista Enrico Rava, «Note Necessarie (come un'autobiografia)».

Per inciso, il titolo insolito riflette un consiglio che il compositore, chitarrista e cantante brasiliano Joao Gilberto diede a Rava: «suona soltanto le note necessarie». Anche quella volta, accanto all'autore comparve il nome di Alberto Riva, e fu facile sapere che il libro era stato elaborato attraverso un paziente lavoro di maieutica socratica che Riva aveva esercitato per sei anni (!) sul trombettista triestino, ricavandone l'autobiografia e giudizi preziosi. Questa volta Riva – che vive fra l'Italia e il Brasile ed è stato produttore del cd Carioca (2008) di Bollani, nonché redattore delle note di copertina – ha fatto la stessa cosa con il pianista (ma ci ha impiegato soltanto un anno). E' lo stesso Bollani a dirlo nella pagina dei ringraziamenti, dove dichiara che senza Riva non sarebbe proprio riuscito «a ingranare». Non sembra un caso, peraltro, che Riva abbia esercitato la sua maieutica sui due celebri musicisti, ben sapendo che nel 1996 fu Rava a far decollare Bollani, tre anni prima che la rivista Musica Jazz lo proclamasse nuovo talento del jazz italiano.

Una lettura attenta del libro permette di intravedere una suddivisione silenziosa, per cui c'è una prima parte che sfuma lentamente in una seconda. Bollani, sempre in termini molto chiari, quasi elementari e spesso divertenti – si potrebbe sostenere che scrive come suona – dice la sua sulla musica in generale e sul jazz in particolare e sull'improvvisazione; poi, senza accorgersi e comunque senza programmazione, passa a parlare di Bollani. Giova ricorrere anche a varie citazioni per far capire al lettore il suo pensiero e il modo di esporlo. Subito ci si imbatte nella sua giusta visione globale della musica: «La storia della musica come la studiamo noi (quando la studiamo, visto che nei nostri licei è la grande assente) è quella della musica occidentale. Nessuno ci racconta di altri mondi, di altre musiche (…). Questa visione della musica limita le nostre possibilità di ascolto». Seguono considerazioni importanti su alcuni recenti esperimenti sui bambini di un asilo italiano che hanno rivelato la loro netta preferenza per Ja musica di John Cage rispetto alle Quattro Stagioni di Antonio Vivaldi.

Qui mi sono permesso un sobbalzo. Nel lontano 1979 ho intervistato il trombonista Giancarlo Schiaffini in vista di un mio libro, «Musica per Vivere», apparso da Laterza nel 1980. Schiaffini mi disse la stessa cosa, parola per parola. I bambini di allora veleggiano adesso verso i quarant'anni. Non è cambiato nulla. Per questo gli ascoltatori adulti, afferma Bollani, prendono cantonate solenni all'apparire delle grandi novità musicali e poi si devono ricredere, se ce la fanno. Si pensi a Igor Stravinskij, a Heitor Villa-Lobos e ad Astor Piazzolla, per fare i primi esempi che vengono in mente. Gli cedo di nuovo la parola: «La musica dovrebbe far parte del progresso cognitivo di ognuno di noi. Ti insegnano a disegnare e non a cantare, ti insegnano a leggere e a capire le arti figurative ma non ad ascoltare la musica, ti insegnano a godere del suono di una poesia e non del suono di un clarinetto. Ti insegnano la storia della cultura del tuo e di altri paesi e non ti parlano mai dell'apporto dei musicisti. Giuro che non capisco perché». Perfetto.

E Bollani cosa dice di Bollani? E' senz'altro consapevole che nessuno, fin dal principio, ha mai posto in discussione la sua caratura di pianista eccellente che è la felice sintesi fra il talento naturale, i dieci anni del conservatorio coronati dal diploma più che brillante e le molteplici esperienze sul campo della popular music, del jazz e della musica accademica («a quindici anni suonavo già in pubblico…») maturate giorno dopo giorno. Tutt'al più, qualcuno se n'è accorto un po' in ritardo, ma succede. Questi fattori gli hanno dato sicurezza. Sa anche, Bollani, che molti gli hanno rimproverato un eccesso di entertainement, oggi sedato col passare del tempo (non in televisione, talvolta: si può spiegare) e con l'arrivo dei quarant'anni. Ha cominciato a difendersi con il debole argomento che entertainer era anche Louis Armstrong; oggi dice assai meglio che lui è fatto così (e così, infatti, viene oggi accettato perfino dai musicofili più arcigni. Leggiamo: «Da bambino io volevo far ridere gli amici, il pubblico occasionale, chiunque. E volevo l'applauso perché avevo fatto ridere. Non volevo sentirmi dire "bravo": non ho mai considerato la musica e il palcoscenico in termini di bravura, di abilità, di gara (…). Far commuovere, o divertire, ecco… quello è un campo dove la seduzione entra in gioco, nelle pieghe, nelle sfumature…Ed è quello, ammetto, che mi piace fare». Poi ci sono considerazioni fondamentali sul suonare insieme e sulla musica come arte dell'ascolto (quante cose insegna il jazz a questo proposito!): «Il cantante sin da bambino, come il violinista, è abituato a essere accompagnato da un altro strumento, il pianoforte, che lo ascolta e lo segue (…). Bisogna sempre procedere insieme, se si suona insieme». Anche per evitare l'insorgere di ego ipertrofici.

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