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Questo articolo è stato pubblicato il 23 gennaio 2013 alle ore 21:53.

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Download, streaming e archivi digitali. Quando il web salva la musica (o forse no)Download, streaming e archivi digitali. Quando il web salva la musica (o forse no)

«Il video ha ucciso la stella della radio», cantavano i Buggles all'alba dell'era di Mtv. «Internet ha ucciso la stella del video», faranno loro il verso i Limousines 31 anni più tardi. Con una consapevolezza ben piantata nella testa: la cosiddetta rivoluzione digitale, l'etica (non sempre etica) della condivisione dei brani, il principio di «libera musica in libero download» si sono abbattuti come un uragano sull'industria delle sette note come la conoscevamo, costringendoci nel bene e nel male a fare l'inventario delle macerie.

Tra major che si fondono per limitare i danni, label storiche a un passo dal fallimento, piccoli negozi di dischi che - quando sopravvivono - suscitano simpatia, sensi di colpa e preoccupazione come il panda gigante. Scenario apocalittico? Provate a chiedere ai musicisti e alle case discografiche indipendenti che ormai sembrano gli alpini sulla linea del Piave: resistere, resistere, resistere. E invece no: ci sono posti nella rete nei quali «band dimenticate possono essere riscoperte, musica raramente ascoltata ottiene una piattaforma e noi abbiamo accesso a una quantità di musica mai avuta prima. Cosa potrebbe esserci di meglio?». Almeno secondo «The Independent», prestigioso quotidiano britannico che pende verso i laburisti senza mai perdere d'occhio l'economia di mercato. Sull'edizione odierna c'è un articolo a firma di Elisa Bray che punta a sovvertire tutte le nostre certezze sugli effetti nefasti che il web avrebbe avuto sull'industria musicale. Sin dal titolo: «Online music archives: net gains for those who love rare rockers». Il tema è quello del fenomeno in espansione degli archivi musicali online che, secondo la giornalista, comporta «un guadagno netto per quelli che amano i rocker rari». Miracolo della lingua inglese, lo stesso titolo può essere interpretato: «La rete guadagna per quelli che amano i rocker rari». Le due versioni non configgono affatto. Anzi.

Pete Seeger preso nella rete
L'articolo cita l'esempio di label «nobili» che si sono re-inventate diversificando i canali di vendita. È il caso della Topic Records, da settant'anni specializzata nel folk delle isole britanniche: ha un catalogo che spazia da Pete Seeger, immortale cantautore americano già compagno d'avventure di Woody Guthrie, agli ultimi alfieri della tradizione celtica. Il bello è che adesso hanno riversato tutto online e un cultore ha la possibilità di fare scoperte musicali impensabili, recuperare materiale che da tempo non veniva ristampato causa domanda circoscritta, fruirne attraverso la piattaforma che preferisce. Ci scappa una citazione anche per Alan Lomax, il più grande collezionista di musiche popolari di tutti i tempi scomparso nel 2002: il suo immenso archivio di brani altrimenti irreperibili è finito sul web un anno fa sotto forma di Global Jukebox. Consultabile gratis e in streaming. Più o meno quello che in Italia s'è provato a fare con l'Archivio sonoro della canzone napoletana della Rai e quello della tradizione musicale pugliese. Pazienza se la ricchezza del catalogo e la fruibilità son sono proprio le stesse.

Il tesoro di John Peel
Il pezzo forte, in ogni caso, è rappresentato dagli archivi di John Peel, leggendario disc jockey della Bbc che tenne a battesimo una serie di illustri esordi tra gli anni Sessanta e Settanta. Oggi puoi (almeno virtualmente) entrarci, guardare foto d'epoca, ascoltare esibizioni e show radiofonici. Un canale innovativo che, secondo l'articolo dell'«Independent», diventa stimolo per chi ascolta e ispirazione per chi scrive canzoni. Messa così, sembra quasi che la rete abbia salvato il rock e tutto ciò che resta della musica popolare.

Industria, arte, artigianato musicale
Nessun dubbio sul fatto che il web abbia cambiato usi e costumi di chi produce e consuma musica. Qui da noi fanno fede gli ultimi dati Fimi disponibili: nei primi sei mesi del 2012 la musica digitale, tra download e streaming, è cresciuta del 43% e rappresenta oggi il 33% dell'intero mercato discografico italiano. A periodi alterni, da una parte all'altra del pianeta, spuntano artisti affermati che rinunciano al supporto fisico per distribuirsi solo online: si guardi il recente caso di Iggy Pop. Peccato che spesso lo facciano come «ripiego», dopo rifiuti clamorosi e liti con le major di riferimento. I gruppi emergenti possono contare su Bandcamp, piattaforma attraverso cui pubblicare (ed eventualmente) vendere i propri pezzi in rete. Uno strumento di diffusione potentissimo che - nei favolosi anni Sessanta dei complessi beat – nemmeno ci saremmo sognati. Peccato che, in mezzo a 6 milioni di brani e 754mila album di artisti provenienti da 183 Paesi diversi, per farsi sentire tocchi davvero alzare parecchio la voce. Perché il web è questo: straordinario mezzo di distribuzione, fonte di conoscenza portentosa, preziosissima biblioteca di Babele. Forse non ha ucciso l'industria musicale. La sta solo abbassando a una dimensione più artigianale.

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