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Questo articolo è stato pubblicato il 25 gennaio 2013 alle ore 19:48.

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Il cinema in catene: in questo periodo il mondo della settima arte sta sviluppando una curiosa tendenza tematica che, un po' per caso e un po' per la necessità di (ri)parlarne, ha coinvolto diverse produzioni a stelle e strisce.
La schiavitù negli Stati Uniti, da sempre materia particolarmente delicata da trattare, sul grande schermo e non solo, è oggi grande protagonista nelle nostre sale, grazie a diversi autori di rilievo che hanno deciso di dire la loro sull'argomento.

Chi ha seguito la strada più rigorosa è Steven Spielberg che in «Lincoln» (in uscita nelle nostre sale questo week-end) racconta con passione una delle pagine più significative della storia americana.
Grande favorito ai prossimi premi Oscar, «Lincoln» non è un semplice biopic sul sedicesimo presidente degli Stati Uniti d'America, ma un film politico, nel senso più letterale del termine, focalizzato sulle discussioni e le polemiche relative al 13° emendamento, quello concernente l'abolizione della schiavitù, approvato nel 1865.
Steven Spielberg aveva già affrontato questa tematica in alcune sue pellicole precedenti come «Il colore viola» (1985) e «Amistad» (1997). Eppure, paradossalmente, dato che in questo caso i protagonisti non sono uomini e donne di colore, è proprio con «Lincoln» che il regista riesce a essere più incisivo, dando forza a una battaglia verbale tra due opposte fazioni, accanite quanto quelle dei soldati americani durante la contemporanea guerra civile.

A concorrere nella categoria principale ai prossimi Academy Awards, ci sarà anche un altro film sull'argomento, «Django Unchained» di Quentin Tarantino (uscito nelle sale il 17 gennaio).
Ambientato pochi anni prima dello scoppio della guerra civile, il film si apre con la liberazione dello schiavo Django da parte di un cacciatore di taglie che, in cambio della totale emancipazione, gli chiede aiuto per riconoscere alcune delle sue prossime vittime.
Al termine dell'operazione, Django avrà un secondo obiettivo: salvare Broomhilda, sua moglie, ora alle dipendenze di un potente possidente negriero.
Nel lavoro di Tarantino, la schiavitù è lo spunto per una classica storia di vendetta, tipica del suo cinema: in «Kill Bill» (2003-2004) la sposa doveva affrontare diversi avversari prima di fronteggiare la sua ultima vittima, in «Django Unchained» il nemico finale dello schiavo liberato è un uomo bianco, emblema di tutti i negrieri.

Tra le novità delle scorse settimane sull'argomento, merita una menzione anche «Cloud Atlas», ambiziosa e sperimentale pellicola girata dai fratelli Wachowski insieme al tedesco Tom Tykwer.
Diviso in sei episodi ambientati in epoche differenti, il film racconta diverse storie di discriminazione, intolleranza e indifferenza verso gli altri.
Il primo capitolo, siamo a metà dell'800, vede l'avvocato Adam Ewing che, assistendo alla brutale fustigazione dello schiavo Autua, decide di nasconderlo e portarlo con sé sulla sua nave. Autua ricambierà, salvando a sua volta l'amico da un tentativo di avvelenamento.
Il tema viene richiamato anche in uno degli ultimi episodi: nel 2144 la protagonista Sonmi~451, interpretata dalla sudcoreana Bae Doona, è un clone della classe lavoratrice (in pratica uno schiavo che non ha coscienza della sua condizione) e grazie all'aiuto di un ribelle capisce i brutali e schiavisti meccanismi della società. Nell'episodio successivo, 2321, la figura della donna sarà addirittura mitizzata.

Se, molto curiosamente, tre film così rilevanti sull'argomento sono usciti nelle nostre sale in gennaio, nel corso del 2013 l'attesa è ancora più forte per un altro titolo (forse in programma al Festival di Cannes o alla prossima Mostra di Venezia) incentrato sulla schiavitù: «Twelve Years a Slave» di Steve McQueen.
Tratto dalle memorie di Solomon Northup, il film racconta la storia vera di un afroamericano nato libero nello stato di New York nel 1908 e, successivamente, rapito e venduto come schiavo per lavorare in una piantagione in Louisiana.
Oltre al piacere di poter nuovamente ammirare il grande talento del regista, dopo «Hunger» (2008) e «Shame» (2011), desta particolare interesse il fatto che sia un regista di colore a dire la sua su un argomento così delicato e sentito.
Nel cast Chiwetel Ejiofor, Brad Pitt, Michael Fassbender, Paul Dano e Paul Giamatti.

Mai come quest'anno, quindi, la triste pagina della schiavitù americana ha avuto un peso così rilevante nella storia del cinema: un desiderio di tornare a ripercorrere un periodo buio che, certo non a caso, viene trattato compiutamente proprio nel momento in cui il primo presidente afroamericano degli Stati Uniti è stato riconfermato alla Casa Bianca per il suo secondo mandato. A riprova della grande capacità del cinema (anche commercialmente parlando) di riuscire a cogliere al meglio lo "spirito della contemporaneità" per farci riflettere su quanto i tempi siano cambiati. O su quanto ci sembrino distanti, forse solo in apparenza.

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