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Questo articolo è stato pubblicato il 25 gennaio 2013 alle ore 14:47.

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Una scena del film "Flight"Una scena del film "Flight"

Saranno gli Oscar, sarà il grande ritorno di maestri che, da sempre, riescono a fare il cinema che sognavano (e sognavamo) da bambini, ma è chiaro che questo fine settimana ci riserva visioni di altissimo livello. E non possiamo non partire dai due assi che si fronteggeranno al box office italiano come, fra un mese anche sul palco dell'Academy. Parliamo di Steven Spielberg e Robert Zemeckis, di Lincoln e Flight.

Due gioielli che riportano questi cineasti ai loro vertici, apparentemente con film inaspettati. Spielberg, con l'epicità e l'eticità che ha quando prende in mano vicende storiche, ma anche con l'agilità espressiva e il ritmo con cui sa umanizzarle (da Schindler's List a Munich passa tutta la sua visione della Storia al cinema), ci restituisce un Lincoln straordinario. E lo fa perché Daniel Day-Lewis è monumentale – ma da vedere rigorosamente in originale, il doppiaggio è tra i peggiori e non fa eccezione Favino, in una delle poche cadute nella sua eccellente carriera -, ma anche perché il cineasta permea il lungo racconto politico, personale, sentimentale e polemico di grande cinema. Lo fa con i comprimari David Strathairn e Tommy Lee Jones, semplicemente perfetti, lo fa con una scrittura "blindata" (storielle da simpatico nonno comprese, grazie allo sceneggiatore e Pulitzer Tony Kushner, quello di Angels in America), lo fa raccontando gli ultimi mesi della Guerra di Secessione e la battaglia tutta politica per abolire la schiavitù senza censure, mostrandone anche i lati oscuri.

Dispiace forse che Spielberg non vada a fondo nel raccontare anche come il repubblicano Lincoln volesse lottare perché il lavoro fosse proprietà del lavoratore, e non solo per la libertà di tutte le persone, ma forse riconoscergli questa ulteriore grandezza poteva essere troppo operaista per un autore americano, sia pure grandissimo. Stupendo, per i suoi chiaroscuri e per un ritmo emotivo e narrativo serratissimo, è anche Flight, che è valso la candidatura all'Oscar come migliore interprete maschile a un rinato Denzel Washington. Meritatissima, perché riempie questo pilota diviso tra la verità che lo incalza e il proprio talento che gli brucia la vita, perché certi doni ti devastano (Maradona e Whip Whitaker, in fondo, non sono così lontani), tra l'inferno che ha dentro e quello che può trovare fuori, di spessore psicologico e di vibrante contraddittorietà.

Un po' come in Spielberg e nello Zero Dark Thirty della Bigelow, troviamo lo scontro dolorosissimo tra ciò che è vero, ciò che è giusto e ciò che si deve fare perché il mondo migliori. E come possa farlo chi ha doti più spiccate di altri. O ciò che devono fare per credere di contribuire a migliorarlo, almeno. Il calvario di un eroe che non ha nulla da rimproverarsi ma che comunque siede dalla parte del torto è un potente faro su ciò che siamo, come reagiamo e quanto sia difficile capire davvero chi abbiamo davanti e quale sia la strada da prendere. C'è un pilota, un incidente aereo, un eroico salvataggio, un percorso di crollo e di dignità. In Flight, semplicemente, c'è tutto il grande cinema che ti morde la pancia e ti accende il cervello.

Lo fa, in maniera meno spettacolare, in fondo, anche Agnieszka Holland: il suo In Darkness è un nuovo sguardo sull'Olocausto da incorniciare in quella visuale postbenignana e, soprattutto, post Mihaileanu: ovvero quel genere di film che non pretendono di raccontare l'enormità e la globalità di quel momento storico atroce, ma solo piccole storie che ne vengono investite. E il ladruncolo ispettore delle fogne che nasconde all'interno di queste ultime gli ebrei che fuggono dal ghetto ha quella grazia, quell'eleganza, quell'empatia propria degli esempi migliori di questo tipo di film.

A tutt'altro genere, invece, si richiama Quartet, il sorprendente e grazioso esordio di Dustin Hoffman. Grazioso perché pieno di grazia e perché ha in tutte le sue parti una dolcezza e una gaiezza che al cinema attuale mancano da troppo. Da Il pranzo di Ferragosto a Marigold Hotel, passando per Irina Palm, la Settima Arte ha riscoperto la terza età. Qui lo fa con una diva che porta scompiglio, con talento e voglia di vivere, in una casa di riposo che si rivela insospettabile sede di talenti vecchi e nuovi. Hoffman mette a punto una melodia di quelle che forse non saranno mai sinfonie, ma canticchierete con gusto per diverso tempo.

Chiudiamo con Pazze di me, nuovo film di Fausto Brizzi, in cui Francesco Mandelli si trova alle prese con tutte le donne della sua vita, da Loretta Goggi a Chiara Francini, da Claudia Zanella a Paola Minaccioni, che più o meno da sempre lo comprimono in un annichilimento costante. Esperto, il regista, della guerra dei sessi – suo il dittico Maschi contro femmine e viceversa -, qui si lascia andare a un ritratto familiare al femminile inquietante per i contorni psicotici delle protagoniste. Efficace e in molte parti divertente- soprattutto per gli uomini che inevitabilmente vivranno una catarsi, riconoscendo la follia di alcune donne della loro vita e forse anche la propria viltà – sconta il fatto di non fare mai un salto di qualità, di non uscire dal gioco di una misoginia divertita ma troppo insistita e alla fine sterile, mascherandola da inno maldestro alla superiorità (qui al massimo solo militare) del genere femminile. Brizzi ha talento e intuito, dovrebbe trovare la voglia e la forza di puntare più in alto. E più forte.

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