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Questo articolo è stato pubblicato il 27 gennaio 2013 alle ore 08:20.

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Con Massimo Castri se n'è andato l'ultimo, grande esponente – insieme a Ronconi, che rappresenta tuttavia un caso a sé – della stagione d'oro del teatro italiano di regia. Non è anzi azzardato affermare che di quell'epoca la scomparsa di Castri segni in qualche modo la fine. Non la fine della regia tout court, beninteso, ma di quella che fu storicamente definita la regia "critica", ovvero di un certo tipo di raffinato esercizio esegetico per cui da un'opera già ben nota si riusciva a ricavare chiavi di lettura diverse e imprevedibili, spesso addirittura opposte rispetto a quelle previste dall'autore.
In questo genere di esperienza Castri è stato un maestro. Ne ha dato un'esemplare conferma in uno dei suoi più recenti spettacoli, Finale di partita, in cui ribaltava sorprendentemente l'orizzonte delle interpretazioni beckettiane: quando, a un certo punto, il servo Clov apriva una delle finestrelle indicate dal copione, da fuori non entrava il silenzio di un deserto apocalittico, ma delle spensierate voci di bambini. Bastava questo minimo dettaglio, pur nella sostanziale fedeltà al testo, per fare dei personaggi non i solitari sopravvissuti a un'ignota catastrofe, ma dei disadattati esclusi dalla vita.
Si può dire che la carriera di Castri, dopo l'inizio come attore, si sia svolta grosso modo in tre fasi. Un primo periodo, legato a quella che era allora la Compagnia della Loggetta, e che sarebbe poi diventata il Centro Teatrale Bresciano, caratterizzato soprattutto dai temi politici e dalle rotture drammaturgiche e formali: sono di quegli anni Il costruttore di imperi di Boris Vian, È arrivato Pietro Gori, anarchico pericoloso e gentile, Un uomo è un uomo di Brecht. Ma va ricordata un'acuta rilettura della Tempesta shakespeariana, e l'insolito Il Bianco, l'Augusto e il Direttore, sul mondo dei clown.
Il secondo, che resta a mio avviso il più interessante, è invece caratterizzato soprattutto dalle rivoluzionarie reinterpretazioni pirandelliane, filtrate attraverso la crisi del dramma borghese e in una chiave quasi proto-femminista: fanno epoca le sue laceranti messinscene di Vestire gli ignudi, del '76, de La vita che ti diedi, del '78, di Così è se vi pare, del '79. Ma fa epoca anche il suo Rosmersholm di Ibsen con due soli attori e due radio che trasmettono parte del testo, seguito da altre due incursioni ibseniane, Hedda Gabler e Il piccolo Eyolf.
Il terzo, dagli anni Ottanta in là, è infine il momento dell'approccio ai grandi classici, Gli innamorati e La trilogia della villeggiatura di Goldoni, L'Ifigenia in Tauride, l'Oreste, l'Alcesti di Euripide, tutti affrontati attraverso il filtro della psicanalisi e dell'ossessiva attenzione al rapporto uomo-donna. Ma personalmente ho preferito certi suoi sconfinamenti in territori meno consueti, Orgia di Pasolini rivisitato come favola nera, Madame De Sade di Mishima, o lo sguardo gelidamente crudele con cui si è accostato alle Tre sorelle di Cechov.
Regista demiurgo fino in fondo, è stato anche pedagogo, appassionato del lavoro coi giovani attori, che ha valorizzato ma a volte anche un po' schiacciato con la sua personalità debordante. Ha guidato il Metastasio di Prato, lo Stabile di Torino, la Biennale Teatro di Venezia. Dopo la morte di Strehler, se ne era inoltre fatto il nome per il Piccolo di Milano: ma forse non era questa la sua vocazione, non aveva la curiosità, l'apertura ad altre realtà necessaria a un direttore artistico.
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