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Questo articolo è stato pubblicato il 03 febbraio 2013 alle ore 15:51.

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Così come è avvenuto per Il Signore degli Anelli, la trilogia cinematografica di Peter Jackson sta mettendo sotto i riflettori anche un'altra importante opera di J. R. R. Tolkien, Lo Hobbit. È bastato l'arrivo nelle sale cinematografiche a fine 2012 del primo dei tre nuovi film annunciati, che, per effetto di un "circolo virtuoso", sono uscite nuove edizioni del libro, sono riprese le vendite dello stesso e cominciano ad apparire in lingua italiana anche testi di analisi e commento dell'opera che costituisce, in un certo senso, la porta di ingresso all'affascinante mondo inventato dallo scrittore e filologo inglese. C'era una volta… Lo Hobbit, pubblicato in questi giorni per Marietti, è in effetti il primo studio uscito in Italia su quello che è stato per troppo tempo ritenuto soltanto un libro per ragazzi ma che, grazie ai suoi molteplici livelli di lettura, si può approcciare con soddisfazione a ogni età, come già lo scrittore inglese C. S. Lewis aveva ben intuito, preconizzandone un futuro da "classico".
Il testo fu pubblicato per la prima volta nel 1937, ma il filologo di Oxford ci stava già lavorando da diversi anni, forse una decina, con rimaneggiamenti notevoli nel corso del tempo. In Italia il libro fece la sua comparsa nell'edizione Adelphi del 1973, dopo l'uscita del Signore degli Anelli, ma senza l'eco che la trilogia di Tolkien portò con sé. Maggiore successo incontrò la pubblicazione dello Hobbit annotato del 1992, uscito per Rusconi in occasione del centenario della nascita dell'autore.

Non vogliamo in questa sede fare un riassunto della trama del libro, piuttosto metterne in luce alcuni aspetti particolari, con l'ausilio, appunto, del nuovo saggio C'era una volta… Lo Hobbit. Innanzitutto le fonti, che sono, certamente, il Medioevo amato e studiato dal filologo Tolkien, ma anche la letteratura inglese dell'età vittoriana, con particolare riferimento alla fiaba. Al Romanticismo ottocentesco si deve, infatti, il recupero della cultura popolare - di cui le fiabe sono un'espressione - dell'interesse per il mito e per il folklore come strumento di affermazione dell'identità nazionale. Vengono ricercate, trascritte e pubblicate opere che fanno parte del patrimonio culturale europeo, come l'inglese Beowulf (1815), il tedesco Poema dei Nibelunghi (1826), la francese Chanson de Roland (1835). Vengono tradotte in lingua inglese le fiabe dei fratelli Grimm, di cui Tolkien è un estimatore. Vengono pubblicate anche in Inghilterra le prime raccolte di fiabe (Andrew Lang), mentre a fine Ottocento e inizio Novecento fioriranno i testi capitali della letteratura inglese per ragazzi (Il libro della giungla di Kipling, Il vento nei salici di Grahame, Il giardino segreto di Burnett, per fare solo qualche esempio). Di tutto questo, in particolare delle saghe mitiche nordiche e delle fiabe popolari, si può trovare molte tracce nel libro di Tolkien, secondo cui la fiaba è una delle più alte forme di letteratura ed è «del tutto sbagliato associarla ai bambini» (concezione, tra l'altro, condivisa pienamente anche dall'amico e collega C. S. Lewis, autore de Le Cronache di Narnia). Tolkien è convinto, insieme ai fratelli Grimm, che al fondo delle storie, al cuore di ogni narrazione, esista un patrimonio condiviso che attinge al profondo della parola, che rimanda a un tempo remotissimo (o addirittura aldilà del tempo) e che lo scrittore deve cercare di conservare e di restituire al lettore moderno. Mentre i fratelli tedeschi cercavano di filtrare la mitologia del proprio popolo anche con un intento didattico e di formazione delle giovani generazioni, lo scrittore inglese, con i suoi racconti, si propone di dare egli stesso una mitologia al suo Paese, che ne è privo.

Per Tolkien, così come per Lewis, la fantasia deve risvegliare lo spirito e arricchire la vita umana. Il racconto fantastico e il mito sono stati da sempre veicoli di esperienza idealizzata tramite l'immaginazione. Il viaggio e le prove alle quali gli eroi vengono sottoposti si rivelano una metafora di un'esperienza spirituale che garantisce un arricchimento al protagonista, alla sua comunità e anche al lettore. È il caso dell'eroe atipico dello Hobbit, Bilbo Baggins. Il suo viaggio si rivela essere soprattutto un percorso che lo spinge a migliorare se stesso e ad aiutare coloro che gli vengono posti accanto. Per completare la sua missione Bilbo dovrà vivere un intenso percorso di formazione, che lo porterà, insieme ai Nani e allo stregone grigio Gandalf, al confronto con il torbido Gollum e allo scontro finale con il temibile e subdolo drago Smaug. Persino l'evoluzione del linguaggio del libro rappresenta in un certo senso tangibilmente il maturare dell'esperienza di Bilbo, cominciando con un registro "basso", rivolto decisamente ai ragazzi, per concludersi con un registro epico che ricorda – meglio, anticipa – certi passaggi del Signore degli Anelli, capolavoro di Tolkien e sintesi definitiva della sua visione letteraria.

"C'era una volta... Lo Hobbit. Alle origini del Signore degli Anelli" con due poesie inedite di J.R.R. Tolkien
(a cura di Roberto Arduini, Alberto Ladavas e Saverio Simonelli)
Ed. Marietti 1820, pp. 312, euro 22,00

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