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Questo articolo è stato pubblicato il 03 febbraio 2013 alle ore 08:16.

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Elsa Morante definiva La serata a Colono – l'unico testo da lei scritto per il teatro, mai rappresentato, e affrontato ora per la prima volta da Mario Martone allo Stabile di Torino – una «parodia» dell'Edipo a Colono. Ovviamente il termine parodia va inteso in questo caso in un'accezione molto particolare, nel senso che si tratta di un abbassamento, di uno sradicamento della vicenda sofoclea dall'insondabile distanza della dimensione mitica a una distorta quotidianità odierna, senza tuttavia sottrarle nulla della sua lacerante connotazione tragica.
L'azione si svolge nel reparto psichiatrico di un ospedale del nostro tempo, dove un vecchio delirante che si è accecato, non si sa quando, con le proprie mani, presumibilmente in un accesso di follia, viene portato dalla figlia un po' ritardata. Quell'uomo è un pazzo che si crede Edipo, e ne rivive l'angosciosa storia nella sua mente malata? O è piuttosto l'antico re di Tebe che – spinto da Febo, dio della luce e delle profezie, a una bruciante smania di conoscenza – si è incarnato nell'uomo per recargli il dono della sua ricerca di verità, della sua conquista di un'amara consapevolezza?
«Forse io sono il corpo d'ogni antenato e d'ogni progenitura – afferma a un certo punto il vagabondo agonizzante, nel suo febbrile linguaggio poetico – il luogo cieco e fisso di tutte le rotazioni temporali, e lo sciame infesto di tutte le contaminazioni». Sembra evidente, dal suo delirio, che egli aspiri ad assumere su di sé tutto il peso della condizione umana: e infatti la Morante mescola qui vertiginosamente citazioni di canti aztechi, dell'Inno dei Morti ebraico, della Bibbia, dei Veda, di versi di Hölderlin e persino di Allen Ginsberg.
Ma quale sapere porta in dote Edipo all'umanità? Al centro del suo immaginario acceso c'è soprattutto la coscienza di una colpa insanabile. Essa non sembra tuttavia legata al tema dell'incesto, che nel testo è molto sfumato. È piuttosto la vita in sé che appare fonte di dolore, è la nascita la vera colpa dell'uomo. Edipo deve espiare l'ardire di essersi creduto simile a Febo, che, non nato, «splende impassibile nell'affermazione / della sua morte eterna», mentre viceversa «la pena che si paga per essere nati è di non poter più morire». Solo al culmine del suo viaggio di sofferenza Edipo potrà incontrare le Eumenidi, che gli concederanno la grazia della fine.
La serata a Colono è una lunga partitura verbale, praticamente priva d'azione, illuminata per lo più dallo struggente contrasto fra l'affannosa, tormentata tensione intellettuale di Edipo – che trova una sorta di visionario prolungamento in un coro di alienati – e la candida semplicità di quel l'Antigone da paese, espressione di un amore istintivo, primordiale. Più accessorio, anche se di fondamentale complemento, il ruolo di alcune figure di contorno, una suora che ambiguamente si trasforma in Giocasta, un medico e tre infermieri che all'occasione pronunciano qualche battuta della tragedia originale.
Con una scelta assai efficace, Martone spoglia la sua messinscena di qualunque orpello teatrale: il corridoio dell'ospedale si intravede appena dietro due aperture sul fondo, mentre i personaggi principali si muovono sul palco sostanzialmente vuoto, in uno spazio sospeso tra realtà e finzione, e il coro dei ricoverati si aggira fra gli spettatori. L'unico forte effetto visivo è quando l'abbagliante disco solare, che ossessiona Edipo, cala dall'alto con i dementi appesi ai bordi come spettri. Ma la rinuncia all'apparato formale serve a porre in risalto la natura puramente interiore del percorso drammaturgico.
Carlo Cecchi, costretto a recitare restando per un paio d'ore sdraiato e bendato, regge alla grande l'impatto con questa materia fiammeggiante, che alterna passaggi ermetici a lampi di alto lirismo, anche se personalmente mi sarei aspettato qualche scarto più acremente raziocinante rispetto al suo magmatico flusso emotivo. Mi è piaciuta moltissimo l'Antigone di Antonia Truppo, col suo parlare dolcemente sconnesso. È convincente Angelica Ippolito nei panni della suora. Defilatissimo, quasi esangue, l'apporto sonoro di Nicola Piovani.
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La serata a Colono di Elsa Morante. Regia di Mario Martone. Roma, Teatro Argentina, fino al 17

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