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Questo articolo è stato pubblicato il 09 febbraio 2013 alle ore 09:29.

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Da settimane non c'è giornale o programma televisivo che non proponga sondaggi sulle intenzioni di voto, e non c'è partito o lista che non ne stia commissionando per farsi un'idea dell'aria che tira. Tra molte differenze, tutti questi sondaggi hanno in comune due cose. La prima è che riferiscono dell'esistenza di una quota significativa di elettori, secondo alcuni addirittura il 40 per cento, che si dichiarano indecisi.

La seconda è che non registrano fin qui grandi spostamenti di voti da uno schieramento all'altro, ma soltanto grosse differenze di entusiasmo e motivazione tra l'elettorato del centrodestra, del centro e del centrosinistra.
A giudicare dalle analisi dei flussi elettorali, non sono molte le persone che da un'elezione all'altra cambiano idea da uno schieramento all'altro. Gli elettori indecisi di cui sopra probabilmente sono indecisi fino a un certo punto: non è che non sanno chi votare, non sanno se votare. Se voteranno, voteranno per chi hanno già scelto in passato. Per questo motivo alle elezioni chi viene corteggiato di più da candidati e partiti non sono gli elettori delusi dell'altra parte ma gli elettori delusi della propria parte. C'è una grande differenza. Per un personaggio politico italiano, investire sul voto in movimento da uno schieramento all'altro è improduttivo, autolesionista: il segmento di popolazione è troppo piccolo e il suo corteggiamento presta il fianco a sospetti e diffidenze, se non apertamente ad accuse di tradimento (si veda quanto è accaduto a Matteo Renzi).

Molto meglio, invece, dedicarsi a motivare la base e i propri elettori delusi, col solito armamentario retorico: alzando i toni, sparandola un po' più grossa, puntando sui simboli, l'identità, sulle parole d'ordine.
In Italia cambiare idea è considerato, nel migliore dei casi, segno di debolezza e incertezza. Nel peggiore dei casi è considerato disdicevole, indizio di qualcosa di sospetto. In un Paese in cui ci si fa vanto di "non accettare lezioni" e si esalta la "coerenza" come la più grande delle virtù, votare una volta a destra e una volta a sinistra è considerato non molto diverso da cambiare squadra del cuore. Questo fenomeno ha profonde radici storiche. C'entra l'abitudine a considerare le preferenze politiche come qualcosa di ereditario, tradizioni di famiglia. C'entrano probabilmente cinquant'anni di contrapposizione frontale e inconciliabile tra due chiese, il Pci e la Dc. C'entra l'arrivo, dopo Tangentopoli, di una generazione politica in larga parte spregiudicata, inaffidabile, trasformista. C'entra l'estrema polarizzazione generata da un personaggio come Silvio Berlusconi.

Questa scarsa mobilità dell'elettorato ha conseguenze piuttosto gravi. Favorisce la formazione di coalizioni larghissime, per esempio. Dato che guadagnare voti è molto complicato, si fa prima a far muovere i partiti. Non è un caso, infatti, che dal 1994 a oggi le elezioni politiche siano state vinte sempre dagli schieramenti che si sono presentati uniti – il centrodestra nel 1994, nel 2001 e nel 2008, il centrosinistra nel 1996 – e siano state sempre perse dagli schieramenti che si sono presentati al voto divisi. L'unica volta in cui entrambi gli schieramenti si sono presentati uniti, nel 2006, è finita praticamente pari.
Al contrario di quel che accade in molti altri Paesi europei, quindi, la lotta per ottenere il consenso della maggioranza degli elettori non avviene al centro dello schieramento politico bensì sulle sue porzioni marginali, estreme. Questo perché manca un blocco elettorale fondamentale allo sviluppo di un sano sistema dell'alternanza: quello degli elettori contendibili, autenticamente indecisi, che non votano per appartenenza o per tradizione, che sono disposti a cambiare idea. Quando scegliere chi votare diventa come scegliere chi tifare – alle brutte non si rinnova l'abbonamento e si parla male dell'allenatore – il sistema politico perde un significativo e naturale incentivo al suo rinnovamento.

La conquista di nuovi elettori, che dovrebbe essere ineludibile, diventa trascurabile: tenersi stretti i propri conta più che cercarne altri. Ne risultano coalizioni sterminate e litigiose, tatticismi esasperati, cartelli elettorali estemporanei, programmi vaghi, governi instabili. Per avere una politica migliore, insomma, non basterebbe avere un po' meno politici disposti a cambiare casacca; dovremmo avere anche un po' più elettori disposti a cambiare idea.

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