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Questo articolo è stato pubblicato il 09 febbraio 2013 alle ore 09:28.

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Che cosa accomuna (solo per citare i primi nomi che mi vengono in mente) Francesco Guccini, Cristiano Godano dei Marlene Kuntz, Ligabue, Vinicio Capossela, Jovanotti, Francesco Bianconi dei Baustelle e Giovanni Lindo Ferretti? Fanno i cantanti, d'accordo.

Ma c'è un'altra cosa: hanno tutti scritto almeno un libro (nel caso di Guccini i titoli, tra romanzi, autobiografie e racconti, sono più di una decina) e hanno tutti, chi più chi meno, venduto bene. Gli ultimi in ordine di tempo a finire in libreria sono stati due "giovani", Simone Lenzi, frontman dei Virginiana Miller, e Giuliano Sangiorgi, voce dei Negramaro: il primo ha pubblicato per Dalai La generazione, da cui il suo conterraneo Virzì ha tratto il film Tutti i santi giorni, mentre il secondo ha scritto per Stile libero Lo spacciatore di carne, che ha portato qualche critico audace a definirne l'autore «la voce che mancava, il poeta: Rimbaud, Eliot, Montale» (sic). Fin qui, sia chiaro, niente di male: non ho francamente mai letto per intero un'opera scritta da un cantante nostrano e non mi permetto di giudicare (benché, confesso, ho qualche dubbio sulle qualità rimbaudeliotmontaliane di Sangiorgi, che ho sfogliato in libreria prima di scrivere questo articolo). Non mi voglio accodare alla lunga fila di autori che inorridisce di fronte alle lodi sperticate (e al successo) che mietono i libri dei cantanti, però mi chiedo: una volta i cantanti pubblicavano libri che contenevano i testi delle loro canzoni o libri-intervista o autobiografie; oggi, benché questo tipo di pubblicazioni non sia scomparso, è decisamente di secondaria importanza rispetto a romanzi, raccolte di racconti o di poesie (le uniche sillogi che vendono almeno un po' sono tra l'altro proprio quelle dei cantanti).

Che cosa è successo? Perché, all'improvviso, i musicisti hanno scoperto di avere una vena narrativa? So bene che mi si potrebbe rispondere che i cantautori si sono sempre misurati con la parola scritta: basti pensare a minimum fax che sta pubblicando tutte le opere letterarie di Leonard Cohen, o ai romanzi di Nick Cave, o al movimento popolare che ogni anno, regolarmente, candida Dylan al Nobel per la letteratura. In Francia, Serge Gainsbourg ha scritto romanzi e novelle, in Russia Bulat Okudžava è considerato uno dei poeti migliori della seconda metà del Novecento. Ma il punto, mi pare, è un altro: è l'aumento spropositato, negli ultimi anni, del numero di libri scritti da persone di spettacolo e la strategia editoriale che, forse, si cela dietro questa continua ricerca di "nomi", i quali possano misursi con un settore, la narrativa, in crisi conclamata. È, in ultima analisi, una questione di dominio e di aura. A me hanno sempre spiegato una cosa: un romanzo, al di là del tema, della lingua e dell'effettivo valore dell'opera, se vuole avere successo deve riuscire a fare un percorso "laterale" all'interno dei media, ossia deve uscire dalle terze pagine e dalle rubriche che si occupano soltanto di letteratura per entrare nelle pagine di cronaca o di costume.

Deve insomma trovare un gancio con qualcosa che non ha direttamente a che fare con il mondo delle lettere: solo così può arrivare a parlare allo spropositato numero di persone che normalmente non legge le pagine culturali. In una parola: un libro diventa patrimonio di tutti quando riesce a suscitare un interesse che va al di là delle questioni libresche, quando esce dal dominio della letteratura e quando non è classificabile come un puro oggetto letterario.
Questo fenomeno la dice lunga sullo stato delle nostre lettere e spiega perfettamente perché, ormai, nelle interviste ai gruppi una domanda di rito all'autore dei testi è diventata: «A quando il tuo primo romanzo?». La massa dei lettori legge più volentieri una storia se questa non è raccontata da un romanziere, ma da qualcuno che ha già imparato a conoscere per altre vie: meglio, poi, se questo qualcuno è una persona il cui lavoro e la cui voce ci accompagnano nella quotidianità, se ci è "arrivato" grazie a una canzone o a un concerto. Molti dei libri scritti dai nostri cantautori, poi, sono furbi: riusano e rimescolano temi, luoghi e personaggi delle loro canzoni più note, e lo fanno con un linguaggio simil poetico che altro non è se non un calco dei testi dei brani musicali (si vedano i libri di Ferretti).

Ne viene che si tratta spesso di libri rassicuranti, dove il lettore ritrova voci e situazioni che già conosce, e ha la sensazione di approfondirle, di entrare ulteriormente in contatto con un mondo che già ama grazie alla musica. (Corollario piuttosto ovvio: ognuno compra solo il romanzo del cantante che gli piace. Un fan di Ligabue non comprerà mai un libro firmato da Vasco, e viceversa: si tratta dunque di libri per così dire chiusi, i quali non hanno la possibilità di intercettare lettori che non conoscono l'autore o che non ne amano la musica).
Pubblicare il libro di un cantante mette implicitamente in circolo un concetto doppio: da una parte, dice che il dominio della cosiddetta letteratura si è slabbrato, perché essa non è più soltanto un affare da scrittori (anzi, stando alle classifiche lo è sempre meno); dall'altra, però, rivela un meccanismo strano, in un certo senso conservatore: mentre gli scrittori lottano per uscire dalle terze pagine, i personaggi dello spettacolo scrivono per entrarci. I libri di Godano o Sangiorgi, buoni o meno che siano, usano un italiano colto, lirico e a tratti iperletterario; Capossela riempie la sua prosa di riferimenti a Céline e ai suoi amori di carta. Si tratta, in pratica, di libri che uno scrittore non si può permettere, pena l'accusa di culturalismo e citazionismo e la condanna, nel migliore dei casi, a un box di qualche riga nella famigerata pagina della cultura. Evidentemente, però, una certa idea di letterarietà rimane e ha ancora senso: i libri hanno mantenuto, in modo vago e fumoso, la propria aura. Il problema è che solo i cantanti hanno gli strumenti per poterla utilizzare.

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