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Questo articolo è stato pubblicato il 10 febbraio 2013 alle ore 08:19.

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Sulla carta era il Macbeth di Bob Wilson, questo che ha inaugurato la stagione del Comunale di Bologna: griffato, laccato, con una fascia lunga di neon orizzontali, sparati bassi sul pubblico della platea, a stornare eventuali pisolini (ma lui, Bob, ronf ronf, seduto la fila dietro, ronf ronf, qua e là). In realtà grazie alla tradizionale e immutabile firma del regista, che genialmente azzera i codici espressivi della tradizione occidentale, sostituendoli col teatro No giapponese, la nostra attenzione stava immancabilmente concentrata sulla musica. Di più che in un'esecuzione in forma di concerto. Perché obbligata proprio dai gesti fissi: la biacca in faccia, il nero dominante, i tagli a cuneo delle scene. E soprattutto dalla drammaturgia orizzontale: sottile come carta di riso, ma implacabile e resistente a qualsiasi penetrazione. Persino la minima, come un banale sfioramento fisico di contatto.
Così in sostanza è stato il Macbeth di Roberto Abbado a farci tornare a ripensare al capolavoro di invenzione drammatica e di pensiero che Verdi forgiò, a due riprese. E peccato siano state tagliate le danze, visto che si dava la consueta seconda versione, del 1865, e che l'orchestra suonava magnifica. Non la sentivamo da tempo, e che sorpresa ritrovare quel suono tondo, pastoso, morbido nel canto, voluminoso nei fortissimo: un suono forgiato dalla cassa meravigliosa del Bibiena, teatro che quest'anno festeggia i 250 anni, con giusto orgoglio. Un involucro magico, con la misura perfetta per il teatro in musica. Verdi scriveva per queste dimensioni e ne restituivano la prova l'equilibrio tra buca e palcoscenico, la non fatica dei cantanti, con le voci che passavano perfette, e soprattutto la trasparenza dei gesti dell'orchestra. Con uno strumento come il Comunale di Bologna, un direttore dalle idee chiare e dal braccio sicuro come abbiamo sentito può cavare un caleidoscopico teatro.
Su una tinta di fondo cattiva e spigolosa, Abbado cesellava il brindisi, «Si colmi il calice», di inquietante morbosità, freddo nel disegno ritmico, nervoso, accentuato, con le piccole pause rispettate alla lettera e perciò in crescendo di voluttuoso dramma. Tutto profilato sulla linea di partenza di lei, Lady Macbeth, e poi esteso a macchia torbida sulle risposte intorno. Alla cattiveria, al sangue raggrumato che chiama altro sangue - e lo sentivi, materico, in buca - si contrapponeva l'accompagnamento per il buono, il vinto, il padre straziato Macduff: la «paterna mano» inutile, assente scudo ai figli. Stupendo l'accompagnamento largo in orchestra, tappeto orizzontale, a dire il niente. Vuoto, smarrimento molto più efficace, perché disegnato senza enfasi, interpunzioni, lacrime (e infatti senza bacchetta). Anticipatore degli impasti notturni del Falstaff la sonorità della seconda apparizione delle streghe: lunare, astratta, magnifica.
Restava solo una domanda: privo di quelle semplificazioni idiomatiche della regia di Wilson (qui una bara di luce a terra, là la sfilata degli omini-guerrieri in scala, ovunque i neon che si accendevano a palla sui fortissimo), Macbeth avrebbe ottenuto lo stesso entusiastico successo? Perché le voci maschili erano buone, a partire da Dario Solari protagonista fino al tenore di Roberto De Biasio. Ma lei, la perfida Lady, motore del tutto, affidata alla sottile nelle colorature e atona nel canto drammatico Jennifer Larmore, come se la sarebbe cavata? Senza la biacca e gli spigoli di Bob sarebbe sparita nel fondale.
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Macbeth di Verdi; direttore Roberto Abbado, regia di Bob Wilson; Bologna, Teatro Comunale, fino al 12 febbraio

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