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Questo articolo è stato pubblicato il 10 febbraio 2013 alle ore 08:20.

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Da mezzo secolo si dice "conquistatori dell'inutile" per alludere con ammirazione agli alpinisti. Oggi la metafora suona sempre più enfatica, troppo pomposa. Infatti è anzitutto datata e poi francese d'origine perché Les conquérants de l'inutile, come ben sa chi va in montagna, è l'autobiografia della grande guida Lionel Terray, cittadino di buona famiglia di Grenoble trapiantato a Chamonix. Quando il libro uscì nel 1961 da Gallimard era ancora sulla cresta dell'onda la conquista degli ottomila himalayani, e di vera conquista si trattava, con spedizioni paramilitari e le rispettive nazioni nelle retrovie, più schierate che negli stadi di calcio. Così Terray, eroe emblematico di quell'epopea, metteva abilmente l'accento sull'inutilità, per dichiarare la nobile, platonica, disinteressata gratuità dell'alpinismo.
Il suo titolo divenuto classico si ricollega alla concezione sportiva inaugurata un secolo prima da un altro classico, The playground of Europe, autobiografia alpinistica di Leslie Stephen, sommo letterato vittoriano, sempre citato come padre di Virginia Woolf. Per lui in fuga dalla fumosa Londra il "playground" erano le Alpi, terreno di gioco dei pionieri dell'Alpine Club.
Da noi invece la tessera del Cai proclama tuttora con Guido Rey che «la lotta con l'Alpe è utile come il lavoro, nobile come un'arte, bella come una fede», motto tanto sbeffeggiato dalla mia generazione sessantottesca. A parte l'enfasi dannunziana, penso che il torinese Rey, poeta del Cervino e industriale tessile, non era tipo da scherzare sulla durezza del lavoro tra Otto e Novecento, ma alludeva all'utilità delle fatiche alpine per la formazione della gioventù borghese. L'idea pedagogica che l'attività in montagna fosse "utile come il lavoro" per forgiare il carattere l'aveva sperimentata su se stesso in famiglia, seguendo con i cugini biellesi le orme e i moniti dello zio Quintino Sella, ingegnere e geologo insigne prestato alla politica, che nel 1863 scalò il Monviso e fondò il Cai: le celebrazioni del 150° sono imminenti.
La nascita dei club alpini all'epoca dell'unità d'Italia segna uno scisma ideale che maturerà nel Novecento, tra la nuova concezione inglese dell'alpinismo come sport e quella delle Alpi da esplorare come immenso laboratorio della natura a cielo aperto che risale agli illuministi del secondo Settecento. Eccoci al punto: questo rapido excursus a ritroso di due secoli ci aiuta ad riscoprire il prezioso trattatello dell'ingegnere militare piemontese Spirito Benedetto Nicolis di Robilant De l'utilitè et de l'importance des voyages et des courses dans son propre pays, che risale al 1789, ora ristampato e tradotto dall'Artistica di Savigliano per conto del Consiglio della Regione Piemonte.
Che il volumetto sia prezioso lo sanno bene i bibliofili e i collezionisti di libri di montagna non solo piemontesi, perché hanno in mente le rare e curiose incisioni del Monte Rosa spesso riprodotte, che riepilogano la carriera dell'autore, grande promotore di indagini e opere minerarie "dans son propre pays" per il re di Sardegna. La maggior parte delle incisioni, nove su quattordici, sono dedicate all'alta val Sesia dove il cavalier di Robilant diede impulso alle miniere d'argento, oro e rame dei dintorni di Alagna. Qui restano sue opere mirabili di archeologia industriale le quali, va rammentato, furono fallimentari, più illuminate che redditizie.
Ma le ultime incisioni ospitano altre rarissime vedute alpine di Piemonte e Valle d'Aosta: l'imbocco della valle d'Ayas con il castello di Verrès, le miniere di Ollomont in Valpelline, la prima veduta dei monti di Cogne e una della nuova strada del col di Tenda dal lato di Briga sul tragitto da Cuneo a Nizza, zona di famiglia: Robilante con l'imponente cementeria si incontra salendo da Cuneo al Tenda. Nel mazzo è finita anche una veduta che sembra più autobiografica delle altre, presa dalla val Varaita e dominata da un aguzzo Monviso; risale all'ottobre 1743, quando il giovane Robilant si occupò dei trinceramenti per la battaglia di Casteldelfino, vinta dai piemontesi su francesi e spagnoli.
Le vedute, commentate una per una dall'autore negli ultimi paragrafi del suo volumetto, sono esemplificazioni e prove documentarie dell'utilità dei viaggi a pro delle scienze naturali argomentata nel testo. Viaggi che per lui, ingegnere minerario, finiscono puntualmente in montagna. Il militare Robilant sa già che la componente fisica è un requisito importante: «la salute e il vigore della giovinezza sono essenziali» - scrive - perché chi si dedica a questi viaggi «è costretto a scalare aspre e alte montagne», in dure condizioni climatiche.
Benché la montagna non appaia nel titolo suggestivo, si tratta di un piccolo manifesto della concezione delle Alpi utili per la scienza che anticipa l'alpinismo, nel solco dei ben più illustri e ponderosi Voyages dans les Alpes del ginevrino Horace Bénédict de Saussure, che coronò la sua carriera nel 1787 con il "viaggio" alla vetta del Monte Bianco. La cima più alta degli stati sardi e d'Europa, vinta però l'anno prima dal dottor Paccard di Chamonix, misconosciuto collega del cavalier di Robilant all'Accademia delle Scienze di Torino e autentico primo alpinista (vedi «Il Sole 24 Ore Domenica» del 6 gennaio scorso).
Alla bella riedizione del Robilant mancherebbe un errata corrige per cancellare una dozzina di righe della prefazione di Vittorio Marchis che attribuiscono al cavalier Spirito Benedetto (1724-1801) anche varie opere del fratello maggiore, conte Filippo Giambattista (1723-1783), architetto e scenografo capo del Teatro Regio per un trentennio, autore tra l'altro delle chiese barocche di Santa Pelagia e della Misericordia molto amate dai torinesi. Analogo errore si trova, da anni, sul sito internet del Museo virtuale del Politecnico di Torino diretto dal professor Marchis.

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