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Questo articolo è stato pubblicato il 17 febbraio 2013 alle ore 08:19.

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Oggi, alle ore 18, nella cappella Redemptoris Mater del Palazzo Apostolico, inizierò la mia predicazione degli Esercizi Spirituali per la Curia romana. Davanti a me, dopo secoli e secoli, circondato dai cardinali e dai vescovi curiali, sarà presente per la prima volta un Papa che ha formalmente rinunciato al suo officio pastorale universale, anche se temporaneamente ancora nelle sue funzioni. Non è certo retorica confessare l'emozione che proverò iniziando un percorso settimanale di isolamento dalla vera e propria bufera mediatica che dallo scorso 11 febbraio, il giorno dell'annuncio di quell'atto di rinuncia, si è scatenata nel mondo. Un'emozione che è, al tempo stesso, intima, perché è a questo Pontefice che devo il mio essere cardinale: sono stato suo collaboratore per oltre cinque anni, oggetto di costante affetto e di fiducia da parte sua. Mi soffermerò, allora, proprio su questi due eventi: da un lato, le giornate degli Esercizi Spirituali che trascorreremo insieme; d'altro lato, quella rinuncia che rivela certamente il coraggio e la grandezza della persona Ratzinger, ma anche il suo amore per la Chiesa come Papa. E lo faremo risalendo al più celebre antefatto certo.
Il mio ciclo di predicazione – che verrà pubblicato subito dopo, agli inizi di marzo, col titolo L'incontro – si staccherà dalla contingenza e respirerà, proprio secondo il desiderio di Benedetto XVI, l'atmosfera del l'anima che nella preghiera, nell'ascolto e nel silenzio trova il suo respiro. È lungo questo sentiero d'altura che si vive la fede autentica: infatti, un antico asserto latino affermava che lex orandi, lex credendi: la guida, la norma per il credere genuino è la via della preghiera. Anzi, idealmente trasformerò quel motto in ars orandi, ars credendi, perché pregare è un'arte, un esercizio di bellezza, di canto, di liberazione interiore.
È ascesi e ascesa, impegno rigoroso, ma anche volo lieve dell'anima verso Dio. Il tracciato sarà offerto dai Salmi, la raccolta biblica di preghiere sulla quale Dio stesso ha posto il suo sigillo, tant'è vero che il teologo martire, vittima del nazismo, Dietrich Bonhoeffer osservava che «se la Bibbia contiene un libro di preghiere, dobbiamo dedurre che la parola di Dio non è solo quella che egli vuole rivolgere a noi, ma è anche quella che egli vuole sentirsi rivolgere da noi». In questa esperienza il credente ritrova la propria identità spirituale.
Per questo, due saranno i movimenti dell'itinerario che proporrò nelle 17 prediche di questa settimana: da un lato, il volto di Dio, che si rivela all'orante e, dall'altro, il volto dell'uomo che pregando scopre se stesso nella sua fragilità e miseria, ma anche nella sua grandezza e gloria. Come scriveva nel 1548 sant'Ignazio di Loyola, in apertura al celebre testo Gli Esercizi Spirituali, evocando gli atti fisici del camminare, passeggiare, correre, «esaminare la coscienza, meditare, contemplare, pregare» sono «modi di preparare e disporre l'anima, così da scartare da sé tutte le affezioni disordinate, cercare e trovare la volontà divina nella disposizione della propria vita, per la salvezza dell'anima». Un testimone al di sopra di ogni sospetto apologetico, Roland Barthes, nel 1971 affermava che «non occorre essere né cattolici né cristiani, né credenti né umanisti per essere interessati agli Esercizi Spirituali di Ignazio di Loyola». Un'esperienza anche "laica", quindi, come l'aveva descritta quella straordinaria donna eliminata ad Auschwitz il 30 novembre 1943 a soli 29 anni, Etty Hillesum. Pochi mesi prima, nel suo Diario, recentemente riedito da Adelphi, confessava: «Dentro di me c'è una sorgente molto profonda. E in quella sorgente c'è Dio. A volte riesco a raggiungerla, più sovente è coperta di pietra e di sabbia: in quel momento Dio è sepolto, bisogna allora dissotterrarlo di nuovo».
Ora, come dicevo, in attesa di entrare nel prossimo conclave per l'elezione di un nuovo successore di Pietro, quando ogni mia testimonianza sarà esclusa secondo le norme della costituzione apostolica Universi Dominici Gregis, emessa da Giovanni Paolo II il 22 febbraio 1996, vorrei evocare sinteticamente il più famoso atto di rinuncia che la storia ci ha consegnato. Altri eventi simili sono più confusi e oscuri o non ben documentati: è, ad esempio, il caso di Gregorio XII che rinunciò nel 1415, in un periodo particolarmente turbolento per la Chiesa con la presenza di vari antipapi.
Che l'atto sia possibile è contemplato anche nel l'attuale Codice di diritto canonico, promulgato da Giovanni Paolo II il 25 gennaio 1983. Il canone 332, al paragrafo 2, recita infatti che «nel caso in cui il Romano Pontefice rinunci al suo ufficio, si richiede per la validità che la rinuncia sia fatta liberamente e che venga debitamente (rite) manifestata, non si richiede invece che qualcuno (a quopiam) la accetti».
Anche a prescindere dalle dispute sull'interpretazione del passo dell'Inferno dantesco (III, 59-60) ove in scena è «l'ombra di colui che fece per viltade il gran rifiuto», certo è che la figura di Pietro di Angelerio, molisano, nato attorno al 1209-10, asceta del monte Morrone, fondatore di una congregazione di eremiti, rimane nella memoria di tutti per la sua vicenda così originale. Dopo la morte di Niccolò IV nel 1292, i pochi cardinali si riunirono in conclave prima a Roma, poi a Perugia, per un paio d'anni, con interruzioni e senza esito per contrasti interni. Alla fine – su impulso anche del re Carlo II lo Zoppo d'Angiò – elessero all'unanimità proprio l'eremita Pietro del Morrone. Il 28 luglio 1294 faceva il suo ingresso a L'Aquila a dorso di un asino, come Gesù a Gerusalemme, sceglieva il nome di Celestino V, forse per ragioni simboliche (legame con le uniche sue forze, quelle celesti) e il 29 agosto veniva consacrato papa di Roma, sempre a L'Aquila.

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