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Questo articolo è stato pubblicato il 17 febbraio 2013 alle ore 08:23.

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Il sesto canto del Purgatorio dantesco si apre con un'istantanea usata come similitudine: le anime dei peccatori in attesa di essere ammesse alla Montagna incantata si affollano intorno al poeta per chiederne le preghiere così come al termine di una partita di dadi chi perde se ne rimane afflitto e solo, rievocando triste il colpo sventurato, mentre tutta la gente si accalca intorno al vincitore che se ne va tronfio e soddisfatto.
Una scena tratta dal vivo delle città comunali, dove il gioco si svolgeva per le vie e coinvolgeva, con i giocatori speranzosi, consorterie di professionisti. I primi, descritti dai predicatori come demoni vocianti e bestemmiatori di Dio, della Vergine e di tutti i santi perché ridotti sul lastrico hanno impegnato i loro abiti, camisiam et serrabulas (le mutande – così negli statuti di un borghetto del Cuneese), i capelli e finanche i testicoli. Mentre dall'altra parte sta il biscazziere, in vesti succinte, senza cappello in testa e senza scarpe ai piedi, con qualche spicciolo nella mano sinistra e nella destra i tre dadi fatali; litigioso, reietto della società, se ne sta nell'ombra vergognoso del resto del mondo: habet verecundiam habendi conversationem cum aliis gentibus dice un loro consorte bolognese, certo Clerus Boni, a fine Trecento, quando nel capoluogo emiliano furono arrestati dal Podestà e fatti frustare 141 di quei tali, di cui solo 10 indigeni, gli altri provenienti da ogni parte d'Italia e persino dall'Inghilterra. Sinonimo di barattiere è in molte città "ribaldo"; egli è così in basso nella scala sociale che, all'occasione, si presta anche a servire da facchino e da pulitore di latrine, da boia e carnefice dove nessun altro vuol farlo. A Firenze nella piazza delle granaglie davanti a Or San Michele nel 1329 furono posti due barattieri col ceppo e la mannaia «per talliare piedi o mani a qualunque persona facesse zuffa o rubare volesse».
Alla cultura, all'attività e agli statuti di questa vera e propria consorteria medievale dedica un denso studio Gherardo Ortalli, professore di Storia medievale a Ca' Foscari, riprendendo e rinnovando i non molti studi precedenti sull'argomento e tracciando l'oscillante parabola sociale, economica, giuridica ed etica di un'istituzione cittadina e molto italiana dal Duecento al Quattrocento. Le fonti sono precipuamente gli Statuti cittadini, dal Cuneese al Veneto alla Toscana, da Mondovì a Verona a Bologna (nel grande regno del Sud il panorama è meno vivace); e sono la poesia e la novellistica, dove pure la baratteria si ritaglia squarci impressionanti.
Il ferrarese Antonio Beccari (come a dire Figlio del Beccaio) figura nelle storie della letteratura italiana di metà Trecento come poeta scapigliato, "grandissimo giocatore" secondo la presentazione che ne fa Franco Sacchetti nel Trecentonovelle, e come si presenta da se stesso in terza persona: «valentissimo uomo e uomo di corte, ma molto vizioso e peccatore e grandissimo giocatore, … che andava scalzo, in camicia e leggero» avendo venduto a Venezia persino la valigia per far soldi e perdere anche quelli, disperato oramai di ritornare «de basso in alto», tanto è «al vizio 'nvilito». La speranza non è molta, per quella malìa perversa con cui un piccolissimo balzo di astragali può rendere in un istante «tristo o giocondo»: quel mondo lo prese e lo tiene avvinto.
Gherardo Ortalli ci illumina sui personaggi delle bische esibite sui cantoni delle strade o in luoghi più appartati e ci guida per due secoli fra queste pratiche più o meno regolate giuridicamente e sfruttate dallo Stato con cinica moralità mediante imposizione di gabelle; fino alla "rivoluzione" provocata a inizio Quattrocento dal l'affacciarsi delle lotterie e ancor più e meglio delle carte da gioco provenienti dal l'Oriente. Queste s'impongono grazie alle loro partite meno canagliesche e più educate, meno fulminee e più meditate, meno soggette al puro caso e più stimolanti del l'ingegno, per cui sono annesse persino alla mnemotecnica e adottate anche da ambienti elevati. È anche questo un segno e diventerà un ingrediente dell'Umanesimo, delle corti e dell'arte.
A questo punto rimarrebbe da illustrare l'altro versante della parola e della pratica della baratteria su cui necessariamente anche Ortalli si sofferma. Ossia sul significato della parola e sulla sua pratica quale quella della corruzione politica. Tali sono infatti i barattieri incontrati da Dante nella quinta bolgia, ai canti XXI e XXII dell'Inferno, immersi in una pegola spessa e bollente, con i diavoli che li beffano e tormentano con forche e uncini al suon della trombetta di Barbariccia, una vera tragicommedia. I commentatori danteschi di fine Trecento e Quattrocento li definiscono infatti come il giudice che aliquid petit indebitum; il pubblico ufficiale che truffatur, baratat et decipit rem publicam et patriam (Graziolo de' Bambaglioli); che «inganna, beffa e baratta la repubblica e la sua patria» (l'Ottimo); che «vende, mercanta e baratta gli uffici che si debbono dare a chi li merita per virtù» (Anonimo Fiorentino). Del «gioco della zara» (il dado in arabo) descritto al l'inizio del Purgatorio e di chi lo pratica, ormai non si ricorda quasi più nessuno, se non i novellieri – tanto erano vivaci e bizzarri i suoi personaggi. La baratteria è ora quella praticata nel potere. A quei "ribaldi" scamiciati e disperati si sostituiscono gli Anziani del governo di Lucca che per denari fanno diventare un no un sì; i ministri come frate Gomita di Gallura che per denaro lasciò fuggire i nemici del suo signore - «e fu fatto appiccar per la gola» (Vellutello). Storie d'altri tempi.

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