Storia dell'articolo
Chiudi

Questo articolo è stato pubblicato il 17 febbraio 2013 alle ore 08:23.

My24

Quindici anni fa Giancarlo Cauteruccio aveva realizzato una «storica» versione in calabrese di Finale di partita. Storica, perché in qualche modo legittimava l'uso del dialetto nell'accostarsi ai grandi capisaldi del teatro, ma storica anche perché quegli accenti aspri, quasi impenetrabili spostavano vertiginosamente gli equilibri della scrittura beckettiana: strappata, in un certo senso, alla sua astrazione metafisica, l'azione prendeva una corposità, una carica di violenza inusitate. Anziché nel canonico rifugio post-atomico descritto dall'autore, U juoco sta' finisciennu si svolgeva dietro le sbarre di una cella di prigione. Con un enorme ventre nudo e un reggiseno di cuoio da transessuale obeso, lo stesso Cauteruccio interpretava Hamm come l'emblema di un potere oscuro, fisicamente incombente, mentre il fratello Fulvio faceva del servo Clov una specie di inquietante marionetta in carne e ossa, ossessivamente costretta a incessanti movimenti sul posto. Oggi i tratti di fondo del suo nuovo allestimento di Finale di partita restano grosso modo gli stessi, ma come stemperati, decantati in una visione meno furiosamente esasperata. La poltrona settecentesca fissata su rotelle in cui è adagiato Hamm – quasi un cimelio molieriano – è uguale, uguali i due monitor che stanno al posto delle finestre, affacciati su un vuoto paesaggio digitale: ma sono sparite le sbarre, sostituite da scabri pannelli sghembi che richiamano Burri, è sparito il pancione e del dialetto, salvo alcune battute, resta solo una traccia, un'eco, una cadenza.
Questo spostamento di tiro non è affatto irrilevante: se infatti là l'evocazione della Calabria suggeriva un retroterra di conflitti esagitati, di brutali contraddizioni, qui assume invece le sfumature vagamente nostalgiche di un più sommesso ritorno alle radici. E anche la vestaglia e la cuffia indossate da Hamm sembrano rimandare, più che alla tradizionale iconografia del personaggio beckettiano, a un'immagine sottilmente famigliare, a un capriccioso despota domestico. Qualunque uomo di teatro che si misuri con un'opera già affrontata in precedenza fa sempre i conti col trascorrere del tempo, compie un indiretto bilancio esistenziale. Ma la cifra della memoria appare in questo caso per vari aspetti predominante, un tracciato inesorabile sotteso all'intero spettacolo: tracima dall'ipotetico romanzo in fieri con cui Hamm tenta invano di dare un senso alla propria vita, traspare dalla frenesia ipercinetica di Clov, che mima gesti quotidiani di ogni tipo, quasi una sorta di archivio motorio di un passato ormai perduto. Resta, ovviamente, la spietata dialettica padrone-servo, che assume i caratteri di un duro scontro tra padri e figli – tra Hamm e i genitori chiusi nei bidoni, Francesco Argirò e Francesca Ritrovato, tra lui e quella sorta di figlio simbolico che è Clov – ma inquadrato nella luce di un confronto reale tra fratelli, un confronto umano, ma anche scenico, fra i due attori: quando Fulvio chiede «a che servo io?», Giancarlo gli risponde «a darmi la battuta». Quando l'uno, stufo di recitare, vorrebbe interrompere la rappresentazione, l'altro gli dice: «Non puoi, c'è la critica». E questa chiave sottilmente «autobiografica» pone nitidamente in risalto certi acri risvolti personali della pièce, l'impossibilità di lasciare un'impronta di sé, l'angoscia dell'invecchiamento.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Finale di partita, di Samuel Beckett, regia di Giancarlo Cauteruccio, visto al Teatro Studio di Scandicci

Ultimi di sezione

Shopping24

Dai nostri archivi