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Questo articolo è stato pubblicato il 17 febbraio 2013 alle ore 08:19.

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Per un ateo materialista come Christopher Hitchens (e come me) ciascuno di noi non ha un corpo ma è un corpo. E, quando si è colpiti come lui da un cancro all'esofago, che lo portò alla morte a diciotto mesi dalla diagnosi nel dicembre 2011, si può testimoniare con particolare vividezza dell'ingombrante verità di questa tesi: «Il passaggio dalla costipazione cronica al suo improvviso, drammatico opposto; il supplizio altrettanto sgradevole di soffrire i morsi della fame e al contempo temere persino l'odore del cibo; il profondo tormento di una nausea torcibudella a stomaco completamente vuoto; o la patetica scoperta che la perdita dei peli riguarda anche i follicoli presenti all'interno delle narici, con la fastidiosa conseguenza di avere sempre il naso che cola come un moccioso». A ben vedere, «non è niente di più di quello che deve fare una persona sana in tempi più dilatati»; ma la malattia fornisce un prezioso punto d'osservazione dal quale ricevere puntuali aggiornamenti sui dettagli fisici e psicologici dello sfacelo. Hitchens ne ha fatto tesoro raccogliendoli nel diario Mortalità.
Sarebbe un'esagerazione definire questo libro «bellissimo», come recita la quarta di copertina, e si sorride senza volerlo sentendo Hitchens, noto per un insopprimibile protagonismo che culminò in una «curiosa svolta a destra (dopo decenni di socialismo) alla vigilia della guerra contro l'Iraq» (ricorda con un po' d'imbarazzo la prefazione), esortarsi «a non cedere all'autocommiserazione o all'egocentrismo». Ma, fatta la tara agli eccessi pubblicitari e al comprensibile autoinganno, rimane un libro utile e a volte illuminante. Che per esempio invita a riflettere sul tema: a quanto saremmo disposti a rinunciare pur di sopravvivere?
Hitchens soffre molto per la perdita della voce: «Somiglia a un attacco di impotenza, o all'amputazione di una parte della personalità. Sia in pubblico che in privato, io ero in larga misura la mia voce». Poi riflette che, se gli fosse stata sottratta prima, sarebbe stato peggio, perché ora essa ha avuto modo di sedimentarsi nella scrittura. Più avanti, quando anche la scrittura è minacciata, incombe la disperazione: «Scrivo queste parole appena dopo un'iniezione che dovrebbe far diminuire il dolore alle braccia, alle mani e alle dita. L'effetto collaterale principale di questo dolore è di intorpidire le mie estremità, riempiendomi della paura non irrazionale di perdere la capacità di scrivere. Senza di essa, lo so fin d'ora, la mia volontà di vivere subirà un durissimo colpo. Sento dissolversi la mia identità quando ipotizzo di perdere l'uso delle mani e di veder guastarsi i meccanismi che mi legano alla scrittura e al pensiero».
Oppure: quanto dolore siamo in grado di tollerare, e perché? Come giornalista, Hitchens si era volontariamente prestato alla tortura del waterboarding per poterne parlare con cognizione di causa; ma le nuove torture non hanno nulla di eroico. «Sono stato disteso per giorni (dopo una lunga radioterapia), cercando invano di rimandare il momento in cui avrei dovuto deglutire. Ogni volta che lo facevo, un'ondata di dolore terrificante mi prendeva alla gola culminando in una fitta alla base della schiena simile al calcio di un mulo. E mi è venuto un pensiero estemporaneo: se me l'avessero detto in anticipo, mi sarei sottoposto a questo trattamento?».
Oppure ancora: in simili condizioni, si vuole mantenere la propria dignità evitando ipocrisia ed eufemismi. Ma, «quando ho detto a un'altra persona, con deliberato realismo, che mancava solo qualche Tac prima che i medici mi dicessero che da quel momento in poi era solo questione di palliativi, sono rimasto senza fiato sentendola commentare: "Già, suppongo che arrivi un momento in cui bisogna considerare l'idea di mollare la presa".» Va bene la sincerità e l'equilibrio, insomma, ma non quelli degli altri, che trasformano la nostra nobiltà nella loro freddezza: «Ho provato il desiderio irrazionale di esercitare una specie di monopolio, o una sorta di veto, su ciò che si può dire».
La morte appartiene alla vita, e come per altre scadenze importanti (un esame, un incontro) ci può cogliere impreparati o seguire invece a un capillare e sofferto esercizio. Una malattia terminale ci regala lo straziante privilegio di vederci morire un giorno dopo l'altro, abituandoci un giorno dopo l'altro all'idea. Hitchens ha voluto usare del privilegio per capire e capirsi, «in quest'anno che (ha) vissuto morendo». Parte di quel che ha capito, e raccontato nel suo diario, è che in un orizzonte sempre più limitato continuano a esserci consolazioni (sia pure la consolazione di un calmante) e speranze (sia pure quella di svegliarsi domani), e anche lo spazio per l'ironia. Come suggerito da Voltaire, altro feroce avversario della religione istituzionale, «il quale, tormentato in punto di morte perché rinunciasse al diavolo, mormorò che non gli sembrava il momento di farsi dei nemici».
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Christopher Hitchens, Mortalità, traduzione di Sara Puggioni
e Annalisa Carena, Piemme,
Milano, pagg. 102, € 12,00

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