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Questo articolo è stato pubblicato il 17 febbraio 2013 alle ore 08:20.

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Oggi è diffusa l'opinione che, dopo l'Ottantanove, si sia conclusa definitivamente l'epoca delle ideologie. E che quella dei giorni nostri sia quindi un'«età post-ideologica». Ma le cose stanno effettivamente a questo modo? E quali sono perciò i motivi che hanno fatto invece del Novecento il secolo per eccellenza delle ideologie in antitesi alla democrazia liberale?
Un saggio del politologo americano Jan-Werner Müller apporta nuovi elementi di riflessione per capire come comunismo e fascismo abbiano avuto, sia pur in misura diversa, tanto successo nel corso del XX secolo. Ma anche perché non si possa oggi dire che la democrazia liberale, nei suoi attuali assetti costituzionali, sarà un sistema stabile e sicuro anche in futuro.
Innanzitutto, va detto, per spiegare l'affermazione delle due principali e contrapposte ideologie che hanno visto la luce nel Vecchio Continente, che esse avevano un codice genetico per lo più comune. E consisteva nella notevole forza d'urto e capacità d'attrazione esercitata dai loro assunti che, comparsi in una fase cruciale coincidente con l'esordio di una società di massa e la Grande Guerra, avevano la parvenza di religioni secolari, in quanto enunciavano prospettive messianiche di trasformazione dell'ordine politico e di palingenesi sociale. Nel forgiare e consacrare queste predizioni, sino a farne uno strumento permanente di suggestione e proselitismo, non furono soltanto i loro artefici ma anche una folta schiera di intellettuali comprendente, oltre a filosofi e pensatori politici (di cui Müller traccia vividi ritratti), giuristi, burocrati e funzionari di partito.
D'altronde, quanti concepirono le ideologie emerse in quel periodo non intendevano solo dare una risposta a problemi e istanze di tanti uomini e donne, nel mezzo degli sconvolgimenti provocati da un immane conflitto, facendo balenare ai loro occhi un futuro radioso. Essi si proponevano di codificare nuovi ordinamenti statuali e criteri di gestione politica, al posto di quelli tradizionali ed elitari. Ed era perciò essenziale che il loro catechismo ideologico avesse una legittimazione politica di massa in modo che apparisse espressione di una "democrazia compiuta". Fascismo e comunismo si proclamavano perciò assertori di una forma più autentica e sostanziale di democrazia, al di là di quella parlamentare, fondata su un "fine superiore" d'interesse collettivo e sull'inserimento delle masse nella comunità politica in funzione della creazione, nel primo caso, di una salda compagine nazionale e, nell'altro, di un governo socialista di popolo. Ciò che servì poi a giustificare, da parte dei regimi totalitari, anche le forme più oppressive e brutali di esercizio del potere.
Inoltre le fortune di queste due ideocrazie dipesero in misura rilevante dal carisma dei loro leader: un elemento, questo, che Max Weber aveva indicato come una delle leve precipue per la conquista e la legittimazione del potere, in quanto sorto originariamente in ambito religioso e perciò tale da assicurare un forte ascendente a quanti ne erano in possesso e da instillare nei loro seguaci la più profonda fede e devozione.
L'importanza di questo fattore per l'instaurazione di un rapporto diretto e plebiscitario con le masse, spiega come la leadership di Stalin e di Hitler sia stata immune da ogni limite istituzionale e dalla nomenclatura dei loro partiti. Ma anche nel caso di Mussolini contò molto il suo carisma personale. Mutuando da un pensatore politico dalle tante connotazioni ma geniale come Georges Sorel l'imperativo alla mobilitazione di massa e coniugandolo con la rappresentazione dell'Italia come "nazione proletaria" oppressa dai Paesi capitalistici più forti, il Duce fece del fascismo, sotto la propria egida, l'alfiere di un nuovo senso d'appartenenza comune e di solidarietà interclassista.
A ogni modo, una volta finita l'epoca delle ideologie d'un tempo, c'è da chiedersi se l'Ottantanove abbia segnato il sopravvento d'un pragmatismo tale da svuotare o, comunque, da emarginare il ruolo dell'immaginazione e del pensiero politico. Secondo Müller è avvenuto semplicemente che oggi sia meno pressante, data la scomparsa di determinati problemi che avevano dato luogo alla preponderanza dei verbi dottrinari del passato, la ricerca di nuove proposte collocabili in grandi disegni ideologici. Egli ritiene tuttavia che la teoria marxista, in particolare, abbia ancora una sua specifica valenza a patto che la si declini, in base alla lezione di Lukàcs, non più come dogma ma come metodo.
D'altra parte, Müller esprime più d'un dubbio nei riguardi della tesi che la democrazia liberale, quale è venuta configurandosi nel secondo dopoguerra nell'Europa occidentale, in versione cristiano-democratica e socialdemocratica, per poi estendersi agli ex Paesi comunisti dell'Est, sia destinata a tenere il campo in avvenire riproducendo le stesse caratteristiche. È vero che essa ha assorbito tanto le istanze del movimento studentesco e di quello femminista del '68 (con il riconoscimento di nuovi diritti civili e la fine di norme improntate alla gerarchia e alla deferenza), quanto l'impatto del neoliberismo (che nei suoi postulati originari contemplava i principi della responsabilità e autorealizzazione individuale, e quindi ben più della deregulation del mercato). Ma non si può che convenire con Müller quando afferma, citando quanto sostenuto a suo tempo da un esponente della sinistra non comunista, Claude Lefort, che, mentre il totalitarismo è «un tentativo di certezza una volta per tutte», la democrazia è, al contrario, «l'incertezza istituzionalizzata». Ciò che richiede pertanto che essa venga costantemente ricreata e rinnovata.

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