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Questo articolo è stato pubblicato il 20 febbraio 2013 alle ore 23:18.

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«You can't shine if you don't burn». Non puoi brillare se non bruci. C'era scritto su un biglietto trovato attaccato al letto di Kevin Ayers, polistrumentista e compositore inglese, membro fondatore dei Soft Machine trovato morto ieri nella sua casa di Montolieu, villaggio di 800 anime del Sudest della Francia dove viveva in assoluta solitudine da quindici anni.
Aveva 68 anni, nessuna malattia particolare – almeno secondo quanto ha riferito alla stampa britannica il suo discografico Bernard McMahon della Lo-Max Records – ma dietro le spalle un'esistenza all'insegna di «uno stile di vita rock and roll».

Si presume che il decesso sia avvenuto lunedì scorso, in circostanze ancora da chiarire. Morte incredibile e misteriosa, almeno quanto la sua vita. Incredibile, misteriosa e piena di ironia: la notizia della scomparsa è stata diffusa dall'ufficio stampa della cittadina francese che in un comunicato ha definito Ayers «una brava persona, molto semplice», ricordando che il musicista aveva lasciato addirittura una delle sue chitarre in un caffè del posto con la scritta: «Per chiunque voglia suonarla». Per la gente del posto: «Era un tipo molto simpatico e molto semplice. A volte suonava la chitarra ai tavolini del caffè del villaggio». Beati gli ignari avventori che facevano colazione.

Gli alfieri del Canterbury sound
La psichedelica britannica ha avuto due scuole: quella di Cambridge e quella di Canterbury. La prima faceva capo a Syd Barrett e ai suoi Pink Floyd, la seconda ad Ayers e ai suoi Soft Machine. La band nasce nella capitale religiosa dell'impero britannico nel '66. Ayers suona il basso e, accanto a lui, raduna due amici di ottime letture e pessima reputazione: Robert Wyatt alla batteria, Mike Ratledge all'organo. Sull'onda emotiva della Beat Generation prendono nome da «La macchina morbida», romanzo di William S. Burroughs più difficile da leggere che da citare. Quando suonano, mescolano melodie pop e improvvisazione jazzistica, citazioni colte e rumorismi da avanguardia. Non un gruppo per tutti, ma gli anni Sessanta sono il regno del possibile. Insieme con i Floyd, la band diventa così un punto di riferimento della programmazione dell'Ufo Club, locale underground londinese che impone il nuovo rock sperimentale.

La spinta di Hendrix
Sono gli anni in cui un certo Jimi Hendrix si trasferisce in riva al Tamigi a caccia di fama e, nel giro di qualche settimane, si ritrova a essere l'ultimo re della Swinging London. Ayers diventa uno dei suoi migliori amici, Jimi lo incoraggia a scrivere musica, gli regala addirittura una Gibson per convincerlo. Nel '68 il Mancino di Seattle si porta la band come gruppo supporter nel suo tour americano. Proprio nell'ambito di questa tournee, al Record Plant di New York, i Soft Machine incidono il loro omonimo album di debutto, prodotto dal manager di Hendrix ed ex bassista degli Animals Chas Chandler. Ayers fa il suo: in «Joy of a Toy» attacca il wha-wha di Jimi al suo basso e, improvvisando, determina la melodia del brano. Scrive in solitudine tre brani e mette lo zampino in altri sei. Tanta roba, pure troppa: lascerà poco dopo, vendendo il proprio Fender Jazz al bassista di Hendrix Noel Redding e concedendosi una pausa hippie sulle spiagge di Ibiza. Smettere con la musica? Macché: il ragazzo intraprende una pirotecnica carriera solista a cominciare dal disco che prende nome (e parte) proprio da «Joy of a Toy». Senza, non avremmo avuto i Sonic Youth.

Le collaborazioni, il ritiro e il ritorno
Più che dal successo commerciale, l'importanza del suo lavoro la valuti dall'influenza che ha avuto nei decenni a venire. Ayers aveva estimatori importati che lo hanno chiamato a collaborare: tra gli altri, Brian Eno, Phil Manzanera, Mike Oldfield, Elton John, Nico e John Cale. All'inizio degli anni Novanta si ritira dalle scene per poi tornare, inatteso, nel 2007 con l'album «The Unfairground», ignorato dai grandi media e acclamato dalla critica più attenta. Fu grande amico di Barrett. Il suo destino – incredibile, misterioso e pieno d'ironia – somiglia proprio a quello del Cappellaio Matto del rock.

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