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Questo articolo è stato pubblicato il 24 febbraio 2013 alle ore 08:22.
Lonza, leone e lupa sono le tre fiere che nella selva oscura ostacolano la salita di Dante verso la cima del «dilettoso monte» oltre il quale è la salvezza. Qualunque lettore sa che nelle fiere sono nascoste le allegorie dei peccati di lussuria, superbia e cupidigia. La cultura medievale usa accostarsi al mondo animale senza curiosità naturalistica, bensì con l'intento di una rielaborazione concettuale che riduca ad allegoria e a elemento morale e teologico la bestia. Si dice bestia senza connotazione negativa, per distinguere la parola da "animale" che, secondo la teoria aristotelica, denota ogni creatura vivente dotata di anima, compreso l'uomo, in cui risiede l'anima intellettiva.
Stefano Perfetti, nel saggio Animali pensati, delinea un'appassionante storia degli animali, così come sono stati "pensati" dalla filosofia e dalla teologia a partire dall'età cristiana fino agli esordi dell'età moderna. La teologia cristiana dei primi secoli sviluppò una vera e propria "zoologia sacra": testi come il Physiologus (II sec.), ma anche le Omelie di Origene (III sec.), per non parlare del Peryphyseon del neoplatonico Scoto Eriugena (IX sec.) e ancora dei bestiari, enciclopedie allegoriche illustrate in auge ai tempi di Dante, sono esempi di quell'arte della "tropologia", la traduzione della figura dell'animale in immagine allegorica finalizzata al rispecchiamento di stati spirituali o morali del l'uomo. Un esempio: la narrazione della creazione delle bestie contenuta in Genesi, viene per lo più interpretata come allegoria della creazione delle qualità razionali (gli uccelli) e del cedimento alle tentazioni (i rettili) nell'anima di Adamo.
In tempi culturalmente lontani dalle "sensate esperienze", conoscere il vero significava riconoscere i segni di Dio nascosti nei vari aspetti della realtà mondana. Eppure le opere aristoteliche sugli animali erano note: nel XIII secolo Michele Scoto tradusse l'intero corpus, il Liber animalium, dall'arabo e lo portò con sé in Sicilia alla corte di Federico II di Svevia. Ma i tempi non erano maturi perché il sincero interesse aristotelico per la biologia animale sostituisse la pratica allegorica, necessaria quale topica dei discorsi di teologi e predicatori. Lo stesso Tommaso d'Aquino reputa che non sia possibile alcuna amicizia tra uomo e bestia. «Si può avere amicizia per qualcuno – egli scrive – di cui vogliamo il bene, ma non possiamo volere il bene per una creatura irrazionale, da che essa non è nemmeno in grado di avere il senso del proprio bene». Quale relazione lega, allora, l'uomo all'animale? Una relazione di dominio del superiore sull'inferiore, così come determinato da Dio che, nel l'Eden, offrì ad Adamo il potere di esercitare il dominio (l'ebraico è inequivocabile: radah, "dominare" è la stessa parola che indica la "pigiatura dell'uva sotto i piedi") su tutte le altre creature. Pertanto, se le bestie sono selvatiche e indomite, ciò per Tommaso non ha nulla a che vedere con la loro indole naturale, ma col peccato originale, che ha fatto perdere ad Adamo ogni potere su di esse.
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Stefano Perfetti, Animali pensati nella filosofia tra medioevo e prima età moderna, Edizioni ETS, Pisa, pagg. 142, € 14,00