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Questo articolo è stato pubblicato il 24 febbraio 2013 alle ore 08:24.

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Tutto si potrà dire, ma non che i tre premi Ubu vinti dall'Origine del mondo di Lucia Calamaro – per la migliore novità italiana, per la migliore attrice protagonista, Daria Deflorian, per la migliore attrice non protagonista, Federica Santoro – non siano strameritati: c'è qualcosa di incontenibile, di genialmente abnorme nella scrittura di questa autrice, dotata di una personalità per vari aspetti unica nel teatro italiano, che riesce a rendere in qualche modo assoluti anche i dettagli più insignificanti della minuta quotidianità dei personaggi.
Come si può definire il ciclo di quattro testi raccolti insieme ne L'origine del mondo? Un grande affresco sul tormento dei rapporti famigliari, in particolare sul travagliato, soffocante legame madre-figlia? La rappresentazione – anche ironica, a tratti buffa – di un'impari lotta per sfuggire alla depressione? Un'acre riflessione sull'impotenza della psicanalisi? Lo spettacolo è un po' tutto questo, ma è soprattutto una lancinante discesa nel dolore, un dolore senza nome, senza fine, senza una causa apparente che lo motivi.
Nel testo che l'ha rivelata, Tumore, uno spettacolo desolato, esso aveva una chiara genesi, derivava dal lutto, dal trauma di una madre per la morte della figlia. Nel successivo, Magick. Autobiografia della vergogna veniva fatto risalire a un'incapacità di accettarsi dovuta a un padre assente, a una madre morta di Alzheimer. Ma qui c'è solo un lento smarrirsi, il pigro distaccarsi dalla realtà di quella che viene definita una «sfollata della vita». Il titolo stesso, col suo richiamo al quadro di Courbet, fa pensare che quel dolore sia inscritto nell'atto della nascita, del partorire o dell'essere partoriti.
Cosa fa Daria, la protagonista (indicata, non a caso, col nome dell'attrice che l'interpreta, e per la quale la parte è stata scritta)? Parla da sola, o parla con gli altri come se fosse sola. Cerca bulimicamente in frigorifero un cibo, uno sfizio che le plachi l'inquietudine. Si interroga sul senso di ogni idea, di ogni parola. Si irrita con la donna delle pulizie che le sposta le cose, non sopporta le madri all'uscita dalla scuola, e in particolare una che ha «quel rossetto madreperlaceo barbie anni Ottanta». Guarda il mondo "alla chetichella", senza riuscire a parteciparvi.
L'autrice crea una partitura di stati d'animo minuziosa e colossale, un compendio di ansie, di fobìe, di ipocondrie allo stato puro. Il testo è il grandioso ritratto "dall'interno" di un'intellettuale sensibile e disadattata, che si dispera per la morte di Zanzotto – di cui viene a sapere l'anno dopo, perché non legge i giornali – come se avesse perduto un amico, e vede se stessa come un quadro di Morandi, «tinte sempre meno intense su oggetti quanto più secondari, tutto il lavoro lo fa la luce, non le cose in quei quadri, che parlano d'altro, non esprimono, ma immobilizzano in silenzio». Un brano che sembra anche la dichiarazione di un'estetica teatrale.
Ciò che più colpisce, in effetti, della Calamaro, è la sua capacità di trovare una cifra stilistica che fa tutt'uno col contenuto, che gli dà forma quasi fisicamente: un linguaggio accuratamente sconnesso, magmatico, ansimante, un flusso di coscienza da pronunciare idealmente senza punteggiatura, benché la punteggiatura sulla pagina esista. Una scrittura apparentemente sconnessa ma basata di fatto su una sintassi rigorosissima, una ferrea «geometria dell'introversione», come la chiama acutamente il personaggio-Daria.
Questa ossessiva costruzione verbale trova piena espressione nella regia firmata dall'autrice, scarna, destrutturata, fintamente minimalista. E viene esaltata dalla prova, giustamente acclamata, delle tre bravissime interpreti: la straordinaria Daria Deflorian, con quel suo recitare senza recitare, con quel suo parlottìo febbrile, convulso, ripetitivo, di una naturalezza, di una "verità" quasi sconvolgenti, ma anche Federica Santoro, la figlia bambina-adulta che si trasforma in psicanalista, e Daniela Piperno, che nelle repliche milanesi ha dato un irresistibile risalto alle insofferenze della nonna.
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L'origine del mondo, di Lucia Calamaro, Milano, Teatro Franco Parenti, fino al 28 febbraio

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