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Questo articolo è stato pubblicato il 03 marzo 2013 alle ore 08:20.

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Uscito sotto elezioni, il nuovo film di Roberto Andò è stato accolto come un pamphlet politico, dando magari l'idea che il cinema italiano sia in vena di raccontare direttamente i meccanismi della democrazia (è in uscita anche, in chiave presumibilmente più comica, un Buongiorno presidente di Riccardo Milani con Claudio Bisio).
Operazione difficilissima, che per tradizione riesce quasi solo agli americani, e in effetti trovare lo stile giusto significa da noi anzitutto confrontarsi con le tradizioni della commedia all'italiana e del cinema politico, e cercare di aggiornarle o aggirarle, come appunto fa Viva la libertà.
La trama mescola due ingredienti classici: il folle che dice la verità, e lo scambio dei gemelli. Enrico Olivieri (Toni Servillo), leader criticatissimo del principale partito di opposizione, è in depressione e sta portando il partito nel baratro. Fugge a Parigi da un'ex amante, lasciando tutti nel caos. Mentre è sulle sue tracce, quasi per caso, il suo probo braccio destro (Valerio Mastandrea) scopre un fratello gemello del leader, Giovanni, appena dimesso da una clinica psichiatrica. Spacciato per il fratello, Giovanni comincia a dire quel che pensa: che a volte è profondo, a volte insensato e dunque interpretabile in mille modi, e finisce col suscitare l'entusiasmo di politici e cittadini. Più che all'idiota di Dostoevskij o a Chance il giardiniere, Giovanni somiglia a certi folli pirandelliani un po' sornioni: e in breve il Partito, per la prima volta, rischia di vincere. Nel frattempo, Enrico in Francia scopre i piaceri dell'anonimato, di una tranquilla vita familiare borghese, e del cinema, sua passione di gioventù.
Andò, adattando il suo romanzo Il trono vuoto (Bompiani, vincitore nel 2012 del Campiello Opera Prima), sceglie una chiave al tempo stesso grottesca e sottotono, memore del Bellocchio più «pirandelliano», dall'accento sulla follia agli affondi operistici in colonna sonora (qui La forza del destino). I destini paralleli dei due gemelli sono seguiti tra Francia e Italia con una sceneggiatura elegante, tra momenti superficiali, altri piuttosto divertenti, altri toccanti, come l'apparizione in video di un Federico Fellini furente, che fa saltare lo spettatore sulla sedia.
Soprattutto, è notevole il lavoro sugli attori, tutti al loro meglio, alcuni sfruttati anche nella loro intonazione teatrale. Servillo riunifica la sua doppia vena istrionesca, il fortissimo e il pianissimo, in un'ulteriore variazione sul politico italiano dopo Il divo e Bella addormentata. Mastandrea, intellettuale funzionario credibilissimo, si conferma uno dei nostri migliori attori. I «padri della patria», meno grigi dei loro eredi, sono Gianrico Tedeschi e Massimo de Francovich. Michela Cescon, Valeria Bruni Tedeschi e Anna Bonaiuto compongono una galleria di figure femminili assai diverse, ma tutte per così dire nervosamente materne.
In definitiva, più che come apologo politico, Viva la libertà! risulta in fondo la testimonianza di una confusione collettiva, confusione che confina a tratti col delirio. Certo, il pubblico di sinistra si può sentire gratificato a leggerlo come roman à clef (Andrea Renzi coi baffetti è D'Alema? Il politico appassionato di cinema è Veltroni?) o addirittura indicazione di una scorciatoia semiseria alla buona politica e alla leadership vincente; come critica interna al Pd, richiamo a una vaga "passione" e a un rapporto diretto con la "gente" – e in questo caso, il politico ideale che ne viene fuori, riempitore di piazze, presidente operaio col casco, ballerino di tango con la cancelliera tedesca, potrebbe soddisfare anche le fantasie degli elettori di Grillo o di Berlusconi. In verità, il tono cupo e malinconico del film lascia anche un'impressione contraria. L'impressione di un mondo claustrofobico e autoreferenziale, pieno d'ombre, chiuso tra interni borghesi ed equilibri politici in cui non si intravede mai nulla al di fuori del Partito (una gabbia di matti, terrorizzati dalle responsabilità).
L'impressione non tanto che ci sia del metodo nella follia di Giovanni, quanto piuttosto che ci sia della follia nel metodo di tutti gli altri intorno.
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