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Questo articolo è stato pubblicato il 03 marzo 2013 alle ore 08:19.
Un mese fa, poco prima di partire alla volta degli Stati Uniti dove era atteso dal suo amico Barack Obama, Giorgio Napolitano ha tenuto un importante discorso all'Ispi. Un discorso nel quale ha rivissuto i passaggi salienti della politica internazionale nel dopoguerra, dalla Guerra Fredda alla nuova realtà globalizzata di oggi. Su questo sfondo il capo dello Stato ha collocato l'evoluzione della sinistra italiana, i suoi errori, il travagliato approdo all'europeismo e alla collocazione nella comunità occidentale. Non è stata una fotografia edulcorata, quella proposta da Napolitano, quanto piuttosto una ricognizione scarna e persino spietata sui limiti storici del Pci, ingabbiato nello scontro Est-Ovest e incapace a lungo di contribuire allo sviluppo di una sinistra riformista. Proprio Giorgio Napolitano è stato, in anni anche più difficili degli attuali, l'artefice del percorso compiuto dal Pci verso l'Europa e il mondo atlantico. Un cammino essenziale, benché ad esso non si sia accompagnata una capacità riformatrice adeguata alle sfide dei tempi. In ogni caso Napolitano è stato sempre molto fiero delle scelte compiute: le ha rivendicate con orgoglio intellettuale, così come ha via via spiegato senza reticenze i vari passaggi della sua storia politica.
Oggi la biografia scritta da Paolo Franchi getta nuova luce su questo itinerario, aiuta a comprendere la cornice entro cui Napolitano è maturato, giovane intellettuale napoletano divenuto in tempi piuttosto rapidi dirigente del Pci togliattiano. Allievo di Giorgio Amendola, capo dell'ala del Pci più attenta ai problemi della democrazia occidentale e quindi più disposto a dialogare con laici e liberali (si ricordano ancora i suoi straordinari dibattiti con il leader del Pri, Ugo la Malfa). Questa particolare sensibilità si è tradotta in Napolitano in opzioni culturali non comuni per quell'epoca e quel contesto. Conoscitore del mondo anglosassone come forse nessuno nel Pci, padrone della lingua inglese in tempi in cui si parlava di preferenza il francese (o il russo, tra i comunisti).
Franchi restituisce tutta la complessità del sentiero esistenziale di Napolitano. E coglie aspetti che gettano nuova luce sull'uomo delle istituzioni. Napolitano presidente della Camera, ministro dell'Interno, deputato europeo e infine capo dello Stato. L'uomo che si trova ad affrontare prove ardue, su cui si decide il destino del paese e la stabilità del sistema. Le affronta non solo con la determinazione che viene dall'antica scuola in cui è stato educato, ma anche con assoluto autocontrollo. Un tratto del suo temperamento che in tempi remotissimi, a Capri, colpì Curzio Malaparte al punto che l'autore di Kaputt regalò una copia del libro al giovane Giorgio, con una dedica che elogiava proprio questa capacità di mantenere la calma «anche davanti all'Apocalisse».
Forse non si è trattato dell'Apocalisse in senso letterale, ma il settennato vissuto al Quirinale da Napolitano avrebbe messo a dura prova chiunque, in qualsiasi epoca storica. Un sistema politico sfilacciato, incapace di uscire dall'eterna transizione, nell'estrema difficoltà di conservare una coesione nazionale sempre minacciata. Il presidente della Repubblica avrebbe voluto legare il suo nome alla completa maturazione della democrazia italiana, nonché al pieno riconoscimento di una vocazione europea vitale per il futuro del Paese.
Viceversa le circostanze gli impongono di affrontare proprio nelle ultime settimane del mandato il compito più impervio. Il sistema non è solo malato, è a rischio paralisi, sullo sfondo di un'inquietante involuzione che apre la porta agli istinti populisti. L'antico amico di Raffaele La Capria, Francesco Rosi, Antonio Ghirelli non si tirerà indietro. Ma forse riflette nel suo cuore sulla distanza che separa l'amara realtà dell'Italia di oggi dalle speranze di un tempo. Paolo Franchi restituisce bene questo intreccio di realismo politico e di passione civile che è caratteristico di Napolitano. Nel 1995, al Gabinetto Vieusseux di Firenze, egli raccontò così un episodio autobiografico: «un giorno, tanto tempo fa – mi stavo avvicinando al Pci – ebbi occasione d'incontrare e scambiare qualche parola con Fausto Nicolini, persona di spirito, fedele e dotto sodale di Benedetto Croce. Saputa la mia scelta politica, non si scompose: «Comunista a vent'anni? Conservatore a quaranta». I quarant'anni per me sono passati da un pezzo. Non sono più comunista, ma non perché abbia rinnegato il nucleo vitale di quell'esperienza; e non sono diventato conservatore. Mi considero da tempo uomo della sinistra riformista, nella grande linea storica della socialdemocrazia europea. E penso che chiunque si collochi in quest'area, ormai senta o dovrebbe sentire come proprio quel «piccolo bagaglio» – tutt'altro che piccolo, in realtà – così caro a Norberto Bobbio. Forse è venuto il tempo di spiegare "perché non possiamo non dirci liberali"». Una sintesi che dice tutto.
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Paolo Franchi, Giorgio Napolitano.
La traversata da Botteghe Oscure
al Quirinale, Rizzoli, Milano,
pagg. 432, € 18,00