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Questo articolo è stato pubblicato il 08 marzo 2013 alle ore 08:50.

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A proposito di Craxi e della giornata più buia della Repubblica, il 29 aprile 1993 la Camera dei deputati non ne concede l'autorizzazione a procedere. Le piazze si gonfiano di indignati ex dormienti. Il 30, Craxi è al Raphael e deve uscire per raggiungere Giuliano Ferrara di cui è ospite in Tv. A piazza Navona, lì vicino, sono radunati i sostenitori di Francesco Rutelli, candidato a sindaco e impegnato in un comizio. Molti mollano e vanno al Raphael. Urlano, fischiano, si dimenano. Arrivano anche ragazzotti del Msi. Si consiglia a Craxi di uscire dal retro. Lui non ne vuole sapere. Esce e si prende quel che deve prendersi, compresa la celebre pioggia di monetine: «Pigliati anche queste!», gli gridano. Craxi è eretto, terreo, sconvolto, orgoglioso. In confronto a piazzale Loreto è niente, ma il sapore è lo stesso. Si discute dell'istituto dell'autorizzazione a procedere, voluto in Costituzione dai padri della Repubblica.

Quella carta sacra, più intoccabile di un totem, sventolata come prova di purezza, talvolta si risistema in poche ore. È quello che succede qualche giorni avanti, in una notte a Montecitorio, dove presiede l'aula Giorgio Napolitano. Ma, per chi non c'era, o era molto giovane, o molto distratto, o non rammenta bene, abbiamo un paio di perline che rendono l'idea. La prima è del già citato Rutelli: «Voglio vedere Craxi consumare il rancio nelle patrie galere». La seconda è di Luigi Manconi: «C'è qualcosa di cupamente grottesco nell'immagine di quell'uomo anziano e malato(...) Anche la malattia (...) non lo fa apparire più fragile, e con ciò meno sgradevole. Al contrario. La sua sembra proprio quella che, nei racconti per adolescenti, è l'infermità dei "cattivi" (nel Piccolo Lord, la gotta se ben ricordo). (...) La malattia completa crudelmente l'immagine di un uomo che – in una torva solitudine – cova i suoi rancori. Quel sarcasmo così appesantito, quell'aggressività così affannosa rivelano qualcosa di intimamente "sporco"...». Si citano Rutelli e Manconi perché, qualunque opinione si abbia di loro, non sono due manettari con gli occhi iniettati di sangue. Rutelli ha poi chiesto scusa. Manconi – in una prima occasione in cui riportai la sua frase – mi telefonò: «Ma davvero io ho detto quelle cose?». Non ci poteva credere. Ecco uno dei punti: non si può credere a quello che eravamo diventati. (Per chiudere il capitolo, Craxi morirà ad Hammamet nel gennaio del 2000, in esilio o da latitante: la disputa è aperta. Ma Massimo D'Alema offrì funerali di Stato alla famiglia, che rifiutò, e per i latitanti non si offrono funerali di Stato).

Il 1993 è tante cose. È Gabriele Cagliari, ex presidente dell'Eni, che si ammazza in carcere con un sacchetto di cellophane e lascia scritto: «La criminalizzazione di comportamenti che sono stati di tutti, degli stessi magistrati, anche a Milano, ha messo fuori gioco soltanto alcuni di noi, abbandonandoci alla gogna e al rancore dell'opinione pubblica. La mano pesante, squilibrata e ingiusta dei giudici ha fatto il resto». È Raul Gardini, l'uomo che realizzò la fusione di Enimont, che si spara alla tempia pochi giorni dopo, terrorizzato all'idea della cella. E meno di due settimane prima, il dirigente delle Partecipazioni statali, Sergio Castellari, si era scolato tre quarti di bottiglia di whisky e pure lui si era ficcato una palla in testa (sono tre suicidi su cui si è fatta una gran letteratura, ma è tutto un altro tema). Il 1993 è l'anno delle bombe mafiose, in via Palestro a Milano, ai Georgofili di Firenze, in tutto dieci morti, e fortuna che ai Parioli a Roma la bomba diretta (pare) a Maurizio Costanzo esplode a vuoto. È l'anno dell'omicidio di don Giuseppe Puglisi. Del progetto golpista raccontato da Donatella Di Rosa. Dei fondi neri dei servizi segreti su cui il presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, coinvolto dalle voci, interviene a reti unificate con l'indimenticabile «a questo gioco al massacro io non ci sto» (ma fin lì ci era stato). Il 1993 alla fine è soprattutto l'anno in cui si apre il processo a Sergio Cusani, uno stralcio del più grande processo Enimont. Cusani, consulente dei Ferruzzi, vuole chiudere la sua vicenda alla svelta e accetta il rito abbreviato. Diventa l'occasione per celebrare il trionfo, alla lunga effimero, di Antonio Di Pietro, che porta a testimoniare tutti i leader della Prima repubblica. Vengono a testimoniare ma in realtà sono sotto accusa. È uno spettacolo enorme, spaventoso, a suo modo bellissimo. Le due immagini finali sono la bava alla bocca di un atterrito Arnaldo Forlani e la spavalderia di Craxi, così ben trattato da Tonino che la curva d'Italia, pronta alla ola, ci rimane male.

È quello che temeva Aldo Moro: la Prima repubblica viene processata in piazza (intervista su La Repubblica di Bernardo Valli al procuratore di Milano, Francesco Saverio Borrelli, del 17 novembre 1993. Valli: «Lei vuol dire che con le indagini preliminari il grande processo pubblico è già avvenuto?». Borrelli: «Sì, il grande processo pubblico è avvenuto». Valli: «Quindi la sentenza è una cosa quasi secondaria, che riguarda la procedura, il diritto, la giustizia propriamente detta; ma intanto l'operazione di "grande bucato" è già lì?». Borrelli: «È già lì, sì, è in parte già fatto…».). Ecco, se il 1993 acclamato a New York è un anno epifanico, il nostro non lo fu per nulla. Fu quello che fu, e produsse un paradosso storico. A contendersi città come Roma e Napoli furono postfascisti come Gianfranco Fini e Alessandra Mussolini, o postcomunisti come Antonio Bassolino e quelli che sostenevano Rutelli. Gli eredi delle idee assassine del Novecento (copyright di Robert Conquest) erano gli unici legittimati a contendersi il Governo del Paese, con i postcomunisti largamente favoriti. Gli altri, quelli che fra mille contraddizioni, mille alterigie e una gestione quasi privatistica del potere ci avevano comunque tenuti dalla parte giusta della storia, fatti fuori. Annientati. Era un finale credibile? No, non lo era. Da quel paradosso, da quell'anomalia sono nate tutte le anomalie e i paradossi successivi, sino a quelli di oggi.

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