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Questo articolo è stato pubblicato il 11 marzo 2013 alle ore 11:18.

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«Here I am, not quite dying». E' l'inconfondibile voce di David Bowie a ricordarci che lui è qui e non è ancora morto. "The Next Day", la title-track del primo album del Duca Bianco da 10 anni a questa parte, spazza via in un colpo tutte le voci che si erano rincorse sul suo stato di salute. Un'operazione al cuore, più seria di quanto inizialmente sembrava, aveva segnato, nel 2004, la sua scomparsa quasi totale dalle scene. Da lì la lunga serie di rumors e illazioni sulle sue presunte condizioni che, negli ultimi due anni, si erano moltiplicate. Di Bowie si era persa ogni traccia e qualcuno lo dava ormai per malato terminale.

La risposta arriva con un disco annunciato all'ultimo momento che, con ogni probabilità, sarà l'evento musicale dell'anno. Un ritorno in grande stile per uno degli indiscussi protagonisti della storia del rock.

Niente interviste, nessun preavviso: David Bowie vuole che a parlare sia il suo nuovo disco. Nel giorno del suo 66esimo compleanno, il cantante ha semplicemente pubblicato sul suo sito il singolo "Where Are We Now?". Così, l'8 gennaio, i fan di mezzo mondo si sono svegliati con una canzone inedita, con tanto di video del Duca Bianco, e la notizia improvvisa dell'arrivo di un intero album. Un'operazione tenuta nascosta fino all'ultimo che, in un'epoca di facebook e twitter, dove le indiscrezioni corrono velocissime da un capo all'altro del pianeta e basta un singolo post a mandare all'aria tutta la segretezza del progetto, è già quasi un miracolo.

Inutile dire che le aspettative nei confronti del disco sono subito cresciute a dismisura. Un artista del calibro di Bowie che non aveva più prodotto nulla dai tempi di "Reality", non poteva certo permettersi di tornare con un lavoro mediocre. E di certo non l'ha fatto.

"The Next Day" cattura fin dal primo ascolto ma è solo facendo scorrere più e più volte le tracce che si riescono a cogliere le sfumature, le sfaccettature, l'incredibile ricchezza di un album straordinario. Un disco che ha poco di sperimentale e che suona decisamente rock.

In realtà, l'opera è una summa dei vari stili, tendenze, ritmi, esperimenti che Bowie, con camaleontica attitudine, ha messo in campo rinnovandosi e cambiando pelle continuamente, in quasi cinquant'anni di carriera. Come se, arrivato a quest'età, Ziggy Sturdust volesse ricordare a tutti di avere inventato molti generi e di aver percorso, per primo, infinite strade seguite, poi, da larghe schiere di discepoli. Ma tutte queste cose, che poi hanno fatto e rifatto in tantissimi, lui le sa ancora fare meglio di tutti gli altri e, con quest'album, sembra volerlo ribadire. Poche novità assolute, insomma, ma un disco carico di energia e di una freschezza straordinaria per un artista con una storia così lunga alle spalle.

Un nuovo giorno a tutti gli effetti che, per di più, nasce sotto i migliori auspici. Si va da ritmi che ricordano alcune sue canzoni dei primi anni '80 nel caso del brano d'apertura "The Next Day" alla psichedelica anni Sessanta di quella perla che è l'antimilitarista "I'd Rather Be High", dallo scarno blues segnato dal sax di "Dirty Boys" agli spettrali e ossessivi suoni "berlinesi" di "Lost is Lost".

Tema centrale dell'album è il tempo che scorre inesorabile. Ormai anche per quel David Bowie che, almeno fino alle soglie del 2000, pareva non invecchiare mai come un moderno Dorian Gray. Da una parte le riflessioni malinconiche e struggenti della ballata "Where Are We Now?", con l'artista che ricorda gli anni di Berlino in un brano intriso di dolorosa nostalgia. Dall'altra il sogno di giovinezza che si trasforma in un incubo horror e pieno di ironia, nel bellissimo video realizzato da Floria Sigismondi di The Stars (Are Out Tonight), con Tilda Swinton nella parte della moglie del cantante. Una canzone dal ritmo incalzante, segnata dalle spettacolari incursioni dei riff di chitarra, perfetta per essere lanciata come singolo.

Ma, ascoltando "The Next Day", occorre lasciarsi completamente trasportare nell'universo burroughsiano, onirico, visionario, cupo e vitale al tempo stesso, di Bowie. Perdersi nell'apparente dolcezza di "Valentine's Day", che però narra, a quanto pare, di un massacro compiuto in una scuola, oppure nelle atmosfere dance (ma lontane dalla vena commerciale di "Let's Dance" e "Tonight") di "Dancing Out in Space". E ancora nelle sonorità allucinate e ossessive di "How Does The Grass Grow?", che strizza l'occhio ad un classico come "Apache" degli Shadows, o nel rock stile Kinks di "(You Will) Set The World On Fire". Senza tralasciare la magica ballad "You Feel So Lonely You Could Die", che apre un varco spazio-temporale collegato con il '72 di Ziggy Stardust (impossibile non ricordare le atmosfere di "Rock'n'Roll Suicide") e che precede la chiusura affidata alla cupa, dura, apocalittica "Heat".

Con lo zampino del suo produttore storico Tony Visconti, insomma, Bowie ha sfornato un nuovo capolavoro. Non sarà un altro "Heroes" d'accordo, e la copertina che, ironicamente, ricalca proprio quella dell'album del '77 in un gioco di specchi che rimanda ancora una volta al passare del tempo, è lì per ricordarcelo. Ma è un disco che valeva la pena di aspettare dieci anni. Il ritorno del Sottile Duca Bianco…

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