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Questo articolo è stato pubblicato il 10 marzo 2013 alle ore 08:23.

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«Questo giornale sorge per volontà del proletariato organizzato di Liguria. Contiamo sulla attiva collaborazione dei lavoratori di ogni ceto, che debbono mantenersi in costante relazione con il loro giornale. E contiamo sulla benevolenza del pubblico alla quale non dobbiamo che un titolo, ma potente: la sincerità». Queste parole condensavano l'articolo di fondo con il quale domenica 7 giugno 1903 il quotidiano socialista «Il Lavoro» esordiva nelle edicole di Genova, frutto dell'impegno di 184 associazioni componenti dell'Unione Regionale delle Leghe e Cooperative, della pressione della Camera del Lavoro e del contributo economico degli scaricatori del carbone che avevano messo a disposizione somme consistenti per realizzare la testata che avrebbe fino al 1992 tenuta alta la bandiera del socialismo riformista.
Protagonista di sviluppo industriale imponente, sintesi della collaborazione tra la politica di Giolitti e del riformismo moderato, Genova vive tensioni sociali aspre che nel rapporto con le istituzioni aprono la strada verso un'emancipazione concreta della classe operaia. Diretto da Giuseppe Canepa, il nuovo quotidiano, svelto vascello, tra le corazzate della conservazione acquisirà meriti nel suo impegno sociale, anche nella struttura culturale da cui è nobilitata la terza pagina sulla quale scrissero Eugenio Montale, Camillo Sbarbaro, Giovanni Ansaldo, Gaetano Salvemini, Piero Gobetti, Giuseppe Rensi, Adelchi Baratono, Giuseppe Prezzolini, Flavia Steno, Mario Soldati, Francesco Flora, Ruggero Orlando, Elio Vittorini, Arrigo Benedetti, Carlo Levi, Arturo Labriola, Mario Bonfantini, Orio Vergani, Arrigo Cajumi. Il giornale riuscì a mantenere una sua autonomia anche durante il fascismo, tutelato da una benevola condiscendenza del Duce nei confronti del vecchio amico Canepa. Alcuni sostengono che tale benevolenza fosse anche un riconoscimento per l'interventismo che i socialisti genovesi avevano predicato negli anni della prima guerra mondiale. Il quotidiano sarà inquadrato totalmente nel regime solo nel 1939 quando direttore viene nominato «il fascista Gianni Granzotto».
Finita la guerra il quotidiano assume il titolo di «Lavoro Nuovo», organo del partito socialista, e alla sua guida dal 1947 sarà Sandro Pertini, molti anni di galera durante il fascismo, attivissimo membro del Cln, un grande carisma personale, un impegno parlamentare di riguardo che lo tiene lontano dalla redazione genovese, affidata alle cure oneste ma spesso curiali di zelanti redattori, più interessati alla vita di partito che non all'acquisizione di nuovi lettori. Pertini sarà molto attento a temi politici come la politica estera, l'unificazione socialdemocratica e l'impegno antifascista che lo vedranno in prima linea contro il governo Tambroni. Con un comizio infuocato nel giugno del 1960, dal quale nacquero scontri violenti tra il popolo genovese e le forze dell'ordine, Pertini impedì il congresso dell'Msi nella città medaglia d'oro delle Resistenza. Quando nel 1968 diventerà presidente delle Camera fu costretto ad abbandonare la scrivania del «Lavoro».
Gli succedettero Paolo Vittorelli, Ugo Intini, Cesare Lanza, Giuliano Zincone, Franco Recanatesi e infine Franco Manzitti che nel 1992 traghettò la gloriosa testata a diventare «panino» di «Repubblica». Furono anni tormentati. Il direttore con più senso giornalistico e che portò il giornale a vette di vendite mai conosciute fu Lanza che, protetto dal cardinal Siri, godeva del privilegio di avere finanziamenti da potenti imprenditori genovesi. Forse l'avventura intellettuale più efficace, anche se snaturava la linea storica della testata, fu quella inaugurata da Zincone, che portò a Genova molti giovani. Così firmarono la cronaca genovese tra gli altri Daniele Protti, Lucia Annunziata, Gad Lerner, Luigi Irdi. Il giornale era stato acquistato da Rizzoli nel pieno delle bufera P2 e della lotta armata che a Genova aveva seminato un numero di vittime assai elevato. Nel primo centenario della fondazione del Psi, anche il «Lavoro» ammainava la sua bandiera: nelle sue povere stanze dietro piazza Corvetto sono cresciute generazioni di ottimi giornalisti. Era un giornale libero, laico, antifascista, ma aveva avuto una gestione aziendale pessima. Spesso venivano pagati stipendi a politici senza arte né parte, si favoleggiava di finanziamenti che il partito devolveva al giornale che con magie e scaltrezza sparivano nel nulla. Il miracolo fatto dagli operai del porto nel 1903 per migliorare la società capitalistica con un foglio indipendente e libero e solidale non si è più ripetuto. Sono passati solo centodieci anni.
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Il Lavoro di Genova. Storie e testimonianze: 1903-1992, a cura di Marina Milan e Luca Rolandi, ed. Tipolitografia Me.Ca, pagg. 402, s.i.p

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