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Questo articolo è stato pubblicato il 10 marzo 2013 alle ore 08:22.

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Magritte raccontava che quando si trovò per la prima volta davanti a un dipinto di De Chirico, i suoi occhi «videro il pensiero». In entrambi gli artisti è evidente l'interesse filosofico di fare emergere la problematicità del reale attraverso la raffigurazione. D'altronde l'arte scaturisce dalla stessa attitudine intimamente filosofica alla meraviglia. Ma v'è una differenza: la pittura interroga la realtà con lo sguardo, affida alla sola percezione sensibile la sua ricerca. «Se guardiamo una cosa con l'intenzione di scoprire cosa significa, – afferma Magritte – finiamo col non vedere più la cosa stessa, ma col pensare al problema che ci siamo posti».
Per questo nei suoi dipinti egli mostra apertamente i due «misteri» di fronte ai quali il Logos si turba: il mistero della realtà del mondo esterno e quello della raffigurazione che lo rappresenta; tema assai ben esplicitato dal dipinto I due misteri, in cui una pipa gigantesca e «reale» volteggia nell'aria sormontando la sua raffigurazione chiusa in una cornice dov'è scritto il celebre motto Ceci n'est pas une pipe. Il saggio di Luca Taddio, intitolato appunto I due misteri, è una appassionata e originale riflessione sul tema della realtà e della raffigurazione a partire dalle problematiche percettive suscitate dai dipinti del pittore belga. La prospettiva dell'autore è quella della fenomenologia sperimentale, «eretica» come la definisce, che attribuisce alla percezione una sua autonomia rispetto al pensiero. Magritte è un maestro nello stimolare le dinamiche percettive dell'osservatore. Un dipinto come La firma in bianco, in cui vediamo una dama a cavallo passare attraverso una fitta boscaglia, sollecita quel meccanismo del «completamento amodale» che ci consente di osservare la figura per intero, completandola mentalmente, sebbene essa si mostri solo a tratti, tra un albero e l'altro. Un dipinto del genere mette in scena un paradosso: rende percepibile qualcosa che non si può comprendere, mette in crisi l'intelligenza, ci spinge infine a indulgere nella visione con atteggiamento di sospensione (epoché) fenomenologica.
È in questo frangente che, secondo Magritte, la realtà si mostra, liberata da quelle sovrastrutture mentali che la determinano mentre la pensiamo, sicché nel rapportarci al mondo lo occultiamo continuamente coprendolo di significati.
Tutta la nostra esperienza del mondo è governata dalla tirannia del mentale; l'amentale è invece, per Magritte, l'unica via poetica utile a emancipare la percezione dal pensiero e a far riemergere la realtà degli oggetti – resi invisibili dagli innumerevoli significati attribuiti loro dall'utilizzo – mediante una precisa strategia di «isolamento», straniamento, dei oggetti stessi nel dipinto.
«Ciò che dipingo è scandaloso per il pensiero, il quale è confortato dall'abitudine di non vedere ciò che si guarda»: la ricerca filosofica di Magritte consiste dunque in una disautomatizzazione del pensiero e del linguaggio nella figurazione. Il che accade ad esempio nel dipinto La chiave dei sogni, una tela divisa in quattro campi in cui compaiono quattro oggetti – cavallo, orologio, brocca, valigia – cui viene attribuito un nome che, in tre casi su quattro, è diverso da quello d'uso: il cavallo è chiamato «porta», l'orologio «vento» e la brocca «uccello». L'intervento poetico consiste nell'istituire delle connessioni inaspettate – «somiglianze» – tra cose e nomi, per fare riemergere, dal mare di opacità dell'uso comune, la vera inusuale identità degli oggetti. Invertire l'ordine delle cose, mescolare le carte della realtà, sono operazioni intimamente sovversive, in quanto sovvertono l'abitudine che abbiamo di pensare sempre la realtà mentre la percepiamo, privandola del suo più intimo mistero.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Luca Taddio, I due misteri. Da Magritte alla natura della rappresentazione pittorica, Mimesis, Milano,
pagg. 288, € 20,00

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