Storia dell'articolo
Chiudi

Questo articolo è stato pubblicato il 10 marzo 2013 alle ore 08:26.

My24

Non so quanto effettivamente convenisse, a Valter Malosti, affrontare Amleto a poche settimane di distanza dal bellissimo Lo stupro di Lucrezia: tornare cioè – dopo l'esemplare dimostrazione di un possibile approccio a Shakespeare "fuori da Shakespeare", che puntava sul linguaggio fiammeggiante di un poemetto del Bardo, rivelandone una carica emotiva forse ancora più squassante delle opere nate per il teatro – a un testo che più canonico non potrebbe essere, l'emblema stesso, il paradigma della drammaturgia shakespeariana. Il regista si è trovato di fatto a passare da una materia incandescente, moderna in sé come quella che è al centro di Lo stupro di Lucrezia, dove il tema della violenza maschile, della sopraffazione sessuale nei confronti della donna si comunicava in un certo senso quasi "fisicamente" allo spettatore, a un'altra che invece è stato costretto ad "attualizzare": e "attualizzare" testi del passato – si sa – comporta sempre qualche rischio, un po' come trovarsi a inseguire in una corsa, o dover rimontare due gol in una partita di calcio.
Malosti, in verità, parte benissimo: l'idea di trasformare il plot dell'Amleto in un dramma borghese di impronta ottocentesca, dove intrighi di corte e manovre militari passano in secondo piano, e prevale l'aspetto dei vizi famigliari, degli appetiti erotici, degli adulteri, è decisamente interessante. E l'immagine della reggia di Elsinore ridotta a un'unica camera da letto, col giaciglio nuziale nel mezzo e due porte che danno l'una su una cabina-armadio, l'altra su un bagno da cui provengono rumori di sciacquone, almeno all'inizio è folgorante. In questa camera, coerentemente, tutti si strusciano, tutti si toccano. Il re pensa solo a sdraiarsi fra le cosce della regina, in calze nere e giarrettiere. Amleto, un ragazzone per nulla emaciato, robusto e sanguigno, dall'accento un po' emiliano, siede come al centro di una scena primaria freudiana, palpeggia Ofelia – che finge di ritrarsi, ma lascia fare – la sbaciucchia e, già che c'è, sbaciucchia anche Orazio. Dall'ampia porta sul fondo appare di tanto in tanto il padre morto, interpretato, come il re, da Malosti, a metà tra un revenant da racconto di Poe e un simbolico spettro ibseniano. Se a ciò si aggiunge che Amleto ha una crisi epilettica, che gli cadono i calzoni come all'Amleto di Nekrosius, che Rosencrantz è una donna a cui lui solleva di continuo la sottana, bisognerà convenire che c'è già molta carne al fuoco. E la carne diventa fin troppa nel secondo tempo, occupato quasi per metà da Ofelia che canta in camicia di forza, e dove non manca neppure un rombo di elicotteri e la raffica di mitragliatrice che abbatte alla fine anche Orazio. Fortebraccio non sarebbe dunque che un presagio del futuro, il futuro di guerre e di lutti che incombe su una società ottusa e volgare?
Non è che, sostanzialmente, il progetto sia sbagliato, ma è andato fuori misura, si è riempito di segni, senza più uno stile definito. Malosti è fra i registi più lucidi e acuti della nostra scena di oggi: l'ansia di introdurre richiami alla contemporaneità gli ha preso però stavolta la mano, inducendolo a qualche banalità che non gli si addice. Fra gli interpreti, oltre allo stesso Malosti, va segnalata una pungente Sandra Toffolatti nei panni di Gertrude. Non è male, benché troppo caratterizzata, l'Ofelia di Roberta Lanave. Mariano Pirrello è un buffo Polonio, un po' svampito. Convince meno, invece, l'Amleto di Leonardo Lidi, così squadrato e privo di sfumature.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Amleto di William Shakespeare,
regia di Valter Malosti, al Teatro Gobetti di Torino fino al 24 marzo

Ultimi di sezione

Shopping24

Dai nostri archivi