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Questo articolo è stato pubblicato il 13 marzo 2013 alle ore 08:09.

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Il "progressive rock" italiano e i suoi fasti musicali, una storia squassante che va dal 1970 al 1977. In uno sfolgorio pop di immagini tratte da giornali e riviste del tempo, manifesti dell'epoca, copertine di dischi originali, schede accuratissime a dire il chi e il come di ciascuno di quei 45 giri e 33 giri, Franco Brizi la racconta quasi giorno per giorno in un tomone di oltre 600 pagine edito dalla Arcana (Franco Brizi, Il Volo Magico, Roma, Arcana, 2013, 75 euro). Oltre 600 dischi radiografati a uno e uno e di cui è indicata la rarità relativa. E questo perché il "prog" italiano è un segmento dei più collezionati fra quelli della musica degli ultimi trent'anni.

Non solo e non principalmente dagli italiani. Alla fiera del disco di qualità per antonomasia, quella di Milano, arrivano timidi giapponesini che in tasca tengono gli euro avvolti dall'elastico, si avvicinano agli stand di Brizi e degli altri specialisti del genere, e indicano con il dito un disco che se ne sta altero su uno scaffale lievemente in disparte. Perché è così nei negozi specializzati in vinili d'epoca. C'è uno zenit dove devi puntare lo sguardo. Lì ci sono i dischi migliori, i più ricercati. È pressoché impossibile che in quel punto il tuo sguardo non incontri la copertina di qualcuno dei dischi eccezionali del "prog" italiano, e sono tanti. Dai New Trolls a Franco Battiato, dal Pierrot Lunaire al Banco del Mutuo Soccorso, dagli Area a Le Orme, dalla Premiata Forneria Marconi a Claudio Rocchi a gruppi minori capaci di un solo disco bellissimo ma che vendette poco e niente e che chiusero lì.

In Paradiso ci sarà il rock?, si chiedeva una rivista musicale inglese più di trent'anni fa. Era come chiedersi se avesse un qualche sugo starsene per l'eternità in un'eventuale landa paradisiaca dove però non risuonassero le note brucianti della musica che tra Sessanta e Settanta aveva impennato il secolo. Che ne sarebbe stato delle anime e delle emozioni delle generazioni che vivevano i loro vent'anni nei Settanta ove non avessero ascoltato il rock a Woodstock o a Parco Lambro, e non so se ascoltare è il termine giusto. Perché si trattava di molto di più che non ascoltare dei dischi o dei gruppi che suonavano dal vivo mentre tutt'attorno ragazzi e ragazze si erano tolti le magliette e talvolta più che quelle. Si trattava di vivere una musica che entrava nelle viscere di una tribù generazionale, che la tatuava, che ne dettava i cerimoniali dello stare e "sballare" assieme. Non è che ascoltavi il rock, il rock ti portava su e ti faceva "volare" dove non eri mai stato. I corpi femminili non sono mai più stati gli stessi dopo essersi sfrenati al ritmo delle band rock. Le femministe potevano sì sputare su Hegel ma non su Elvis Presley, il cui bacino sussultante ha indicato la strada della loro liberazione morale e sessuale. Uno dei protagonisti di quella stagione musicale, Claudio Rocchi, ha scritto così nella prefazione al volume di Brizi: «[rimasero] segni indelebili nelle giovani menti di chi nel 1963 aveva visto i Beatles a TV7 al London Palladium; lamé scintillanti on stage, reggiseni e mutandine al vento. Malori e flicks stupefatti a non capire, mentre sfilavano le ambulanze di svenimenti a raffica».

Era una musica esplosa nell'Inghilterra e nell'America dei Sessanta, a cominciare da esecuzioni-pietre miliari dei Beatles e dei Rolling Stones, ma che all'alba dei Settanta irrompe in Italia a trovarvi un terreno originale fatto di giovani musicisti che smaniavano per il rock ma che non dimenticavano nulla delle loro conoscenze e delle loro identità musicali originarie, dal jazz all'avanguardia alla stessa musica classica. Giovani musicisti che non si volevano negare il ritmo martellante del rock, ma che non per questo spregiavano ogni contaminazione possibile tra i generi musicali, e difatti quando ascolti qualcuno dei capolavori del "prog" italiano il tuo diventa spesso un vertiginoso saliscendi tra rock e jazz e musica classica. Ecco il marchio di origine del "progressive rock" italiano, detto "prog" dagli adepti di questa vera e propria religione. L'aggettivo "progressive" vale a connotare una musica che di performance in performance è sempre diversa, perché si arricchisce ogni volta di nuove combinazioni strumentali e di nuova inventività sonora.

Disco dopo disco, gruppo dopo gruppo, esecuzione dopo esecuzione: un'esecuzione di cui sai come la cominci, ma non esattamente come la continui e finisci.
Quella raccolta e messa in vetrina da Brizi è una sequela impressionante di dischi celebri e meno celebri, perché editi in poche copie da una sigla editoriale minore e subito andati sperduti. Dischi talvolta rarissimi e costosissimi da trovare. Punta dell'avanguardia musicale non soltanto italiana dei Settanta, i primi quattro dischi di Battiato costano alcune centinaia di euro ciascuno. Ci vogliono mille euro o poco meno per avere un disco-oggetto stupefacente, l'albo del 1972 del Banco del Mutuo Soccorso che ha la forma di un salvadanaio. Ci vogliono 2.000 euro per comprarsi il primo disco dei Pooh, quel Contrasto che per volontà degli stessi musicisti venne subito ritirato. Ce ne vogliono altrettanti o forse più per un disco cimelio, lo Zarathustra, l'unico mai prodotto dal gruppo che aveva per nome Museo di Rosenbach e che Brizi nel suo libro definisce con una sola parola: «un capolavoro» Ci vogliono più di 4.000 euro se vuoi l'edizione in vinile rosso (50 copie su 500 complessive dell'edizione) del disco con cui Mario Schifano ricalca in quello stesso anno l'operazione fatta da Andy Warhol a New York nel 1967 con i Velvet Underground e Nico, quando Warhol trasformò il disco Banana in una sua opera. Allo stesso modo è un'opera di Schifano il disco che ha per titolo Dedicato a. Il disco e la musica del gruppo che Schifano aveva messo insieme, certo; ma anche la copertina del disco, disegnata da Schifano, e quella struggente e prolungata dedica agli uomini e alle donne che erano state il paradiso e l'inferno della sua vita.

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