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Questo articolo è stato pubblicato il 14 marzo 2013 alle ore 08:14.

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Nell'estate del 2012 l'apparente occupazione degli scrittori italiani era sopravvalutare Il senso di una fine di Julian Barnes. La mia era correre. Dopo due sibaritiche settimane di vacanza in Grecia durante le quali non avevo visto né una nuvola né uno scontrino, mi trovavo di nuovo a Roma: moderatamente abbronzato, leggermente ingrassato e spaventosamente a corto d'idee.

Con la corsa – che su di me ha sempre avuto un sorprendente potere maieutico – speravo di correggere almeno due dei tre inconvenienti. Scelsi Villa Ada, perché assieme a Villa Pamphilj è uno dei più grandi e selvaggi parchi della città, meno lezioso di Villa Borghese, meno fascista di Villa Torlonia e, soprattutto, più vicino a casa.
Non sono né un fanatico della forma fisica né uno scrittore maratoneta come Haruki Murakami, ma solo uno che corre per stare bene. Corro finché mi va, e aumento tempi e distanze solo quando inizio a durare meno fatica. Non ho un'idea esatta dei chilometri che percorro perché non ho un orologio con Gps e le distanze nel parco non sono segnate, ma so che due giri corrispondono circa a 10 chilometri.

Corridori in lutto?
Durante la prima settimana di allenamento, oltre alle tipiche e cocenti umiliazioni del neofita – quali essere superati da atletici settantenni, rocciosi palestrati, Milf agguerrite e persino da un masochista che correva con dei ceppi di piombo alle caviglie – mi sono accorto di un particolare: tutte le persone correvano con una fascia nera al braccio.
All'inizio ho pensato che fosse morto un grande maratoneta e che i corridori portassero il lutto al braccio per commemorarlo. Sì, mi dicevo correndo, deve essere scomparso uno di quei kenioti figli del vento, uno di quei nobili guerrieri che corrono con le gambe che gli battono nel mento e lo sguardo rivolto all'orizzonte torrido del deserto. Poi, quando sono riuscito a tenere per qualche metro il passo dei più lenti, ho scoperto che non si trattava di un lutto al braccio, ma di una fascia porta smartphone.

L'idea di portarmi dietro il telefono e diventare raggiungibile proprio nell'unica ora in cui volevo essere irraggiungibile non mi esaltava. Eppure, in modo del tutto irrazionale, d'un tratto possedere quella fascia è diventata una priorità. Lentezza e scarsa resistenza dipendevano solo da lei. Loro correvano più di me perché portavano al braccio quella fascia: un amuleto che li rendeva invincibili come nelle favole. Una volta in mio possesso, anch'io sarei riuscito a superare i miei rivali con un colpo di reni e un sorrisetto beffardo. Dopo un'aspra ricerca, per una cifra empia mi aggiudicai la fascia magica. Ora che era stretta al mio braccio, potevo finalmente riprendere l'allenamento. Ricordo bene il momento in cui, raggiante, inguainai l'iPhone nella custodia, infilai le cuffie, e m'incamminai verso il parco.

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