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Questo articolo è stato pubblicato il 17 marzo 2013 alle ore 08:25.

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Stanno per uscire i primi quattro volumi dei Diari di Amintore Fanfani per la cura del l'Archivio storico del Senato e con la collaborazione della Fondazione Fanfani, che coprono un periodo che va dal 1943 al 1964. Seguiranno altri quattro fino al 1990. Da un decennio consultabili i manoscritti non sono ignoti agli studiosi, ma diverso averli ora pubblicati, con un apparato davvero imponente. Questi primi volumi corrispondono agli anni della nascita e del consolidamento della prima Repubblica, in cui Fanfani svolse un ruolo sempre più decisivo, fino a un passo dal dominare la scena politica, come il suo predecessore De Gasperi, senza in fine riuscirci, avviandosi la Dc verso un "condominio" che non accettava la sua leadership.
De Gasperi non era solo spirito devoto, ma intrinsecamente religioso, in ciò immune dal demone del potere che sapeva usare con consumata abilità, ma ai fini della sua visione etico-politica. Fanfani era invece un pontiere del potere. Sapeva costruirlo e lo usava di conseguenza per rafforzarlo. Era una costruzione che aveva la finalità istituzionale di governare, per cui egli era molto dotato. Governare per adeguarsi a una società in mutamento, anzi a cui bisognava imprimere un determinato cambiamento, non altro, ed egli ne conosceva il limite perché il potere si mantenesse saldo. Per fare ciò il partito era il punto di partenza e di arrivo del processo politico.
Quando prese il posto di De Gasperi, fu lui a fare della Dc il «partito della società» italiana attraverso la sua sovrapposizione allo Stato. Lo concepì e lo attuò come un semimonopolio, per quel tanto che la dialettica democratica lo consentiva. Per assicurarne l'effetto fu lui l'iniziale fondatore della Repubblica dei partiti, gettando le basi della costituzione materiale della prima Repubblica, altrimenti detta partitocrazia, anche se furono altri a gestirla. Perché quel sistema di potere, che aveva così intensamente contribuito a costruire, non tollerava un unico capo e col tempo neppure un'effettiva bussola di governabilità.
Fanfani nel volgere di una notte del gennaio 1959 fu indotto dalla sua maggioranza nella Dc a lasciare prima la Presidenza del Consiglio poi la segreteria del partito, che deteneva saldamente, ponendosi contro tutti, come risulta dal suo Diario, convinto di conseguire una rivincita completa che non poté ottenere. Dai banchi dell'Università Cattolica, dove era stato professore, negli anni 30, aveva lucidamente introitato il mutamento avvenuto nella società italiana col fascismo. Aveva poi prestato attenzione all'esperienza americana del New Deal e maturato una visione aggiornata dell'intervento pubblico in economia. I suoi scritti politici dell'epoca sono centrati su due punti, il partito e il sistema corporativo. Una concezione autoritaria del potere, che anche il suo Diario dell'esilio svizzero riflette, proclive più che alla nascita di un partito cattolico, a una soluzione di tipo conservatore, lontana dalla dialettica dei partiti antifascisti, quale anche il Vaticano si proponeva.
Fanfani comparve dopo la guerra nelle stanze di piazza del Gesù al seguito di Dossetti, facendo rapida strada. Per quanto quest'ultimo riponesse grande affidamento su di lui, conservò sempre un freddo realismo e il suo integralismo fu di natura politica non religiosa, mettendosi in luce come uomo di governo, più di altri della nuova generazione dei democristiani.
L'assunzione della segreteria della Dc, come questi Diari mostrano, lo mise al centro dell'articolata rete del sistema politico (vi compaiono tutti i protagonisti della politica italiana, Nenni, Saragat, La Malfa, Malagodi, l'intera Dc da Segni a Rumor, da Colombo a Scelba e Moro, in fine al Vaticano con i pontefici Giovanni XXIII e Paolo VI). Sono Diari di lavoro, non scritti per il pubblico, come ad esempio quelli di Andreotti, in cui spesso prevale quello che si vuol far credere su ciò che è accaduto. Fanfani parla più degli altri che di sé e, quando lo fa, la riflessione resta scarna, quasi sempre destinata a esprimersi altrove. Il primo governo Moro, già agli inizi del 1964, era in difficoltà, attaccato da una destra, che aveva in Segni al Quirinale un pericoloso centro di manovra. Fanfani, ch'era storicamente stato l'alfiere del centrosinistra, dichiarava la «reversibilità delle alleanze», colpo quasi mortale, ma di cui si fa appena un cenno nel suo Diario. In esso per altro si evince tutta la trama complessa e articolata che portò alla disarticolazione di quel l'esperimento politico.
Da allora Fanfani si spostò a destra, sempre con la sua propensione demiurgica a essere sopra le parti per dominarle, puntando più volte al centro del potere. Non ci riuscì mai e il suo avversario naturale fu Moro. Egli, come si è detto, era la versione dinamica della conquista del potere. I "dorotei", da cui si era scisso, quella statica. Poi c'erano le correnti della sinistra Dc che avevano inclinazione essenzialmente corporativa, salvo la Base con un'ispirazione più politica. Moro fu il vero "demiurgo" italiano di questa contraddittoria scacchiera. Per scioglierne il groviglio, invece di inchiodarsi all'equilibrio interno della Dc, allargò la sua visione all'intero sistema politico. Capì che occorreva risolvere il problema della incompiutezza della democrazia italiana.
Si volse così a sinistra e in fine prese ad affrontare la questione comunista. Fu l'unico a intendere che il '68 costituiva l'inizio di una rottura, anche antropologica, tra società e sistema politico. Nei tragici giorni che precedettero la sua morte Fanfani, ormai uscito di scena, intuì a sua volta che con Moro finiva la prima Repubblica. Di questa trama quasi bizantina, che ha contraddistinto il sistema politico italiano, questi Diari di Fanfani sono uno dei documenti indispensabili per districarne i fili intrecciati e intendere fino in fondo la lotta politica interna alla Democrazia cristiana.

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