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Questo articolo è stato pubblicato il 17 marzo 2013 alle ore 08:24.

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«Durante il nazismo chi stava fuori non sapeva bene cosa accadeva nei lager, ma oggi siamo informati di quel che avviene in Corea del Nord! – esclama il regista Marc Wiese –. È stato spaventoso quando con Google Map ho potuto addirittura vedere uno di questi campi dall'alto». Difficile non fare i conti con questa affermazione. Molti di noi si sono chiesti, leggendo a posteriori i resoconti dei sopravvissuti all'olocausto, o anche al genocidio del Rwanda, che cosa avrebbero fatto se ne fossero stati a conoscenza mentre il massacro era in corso. Hanno pensato che qualcosa avrebbero potuto fare, che qualcosa si doveva fare. Ebbene, noi oggi sappiamo.
Dopo il terzo test nucleare di Pyongyang in febbraio, l'Onu ha approvato nei giorni scorsi un'altra risoluzione. La Corea del Nord ha risposto con la consueta minaccia di lanciare le sue testate atomiche sulla Corea del Sud e sugli Stati Uniti. Con questo balletto passano i decenni. Siamo già alla terza generazione di dittatori. La terza generazione di internati. La fine del documentario è atroce. Shin, che già aveva dichiarato di trascorrere ore disteso cercando di non pensare a nulla, confessa che il suo corpo è a Seoul, ma la sua mente è ancora là, dentro al recinto della prigionia. Che vorrebbe tornare nella sua casa: il campo. Spiega che laggiù la gente soffre, ma tutto quello che deve fare è seguire le regole e lavorare duro. A Seul invece le persone soffrono perché non hanno denaro. Per lui è estenuante pensare al potere dei soldi. «Mi manca la purezza del mio cuore di allora, la leggerezza, l'innocenza di quando non sapevo che esisteva un mondo diverso».
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