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Questo articolo è stato pubblicato il 17 marzo 2013 alle ore 08:28.

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È un periodo in cui, per fortuna, i teatri milanesi sono strapieni, spesso esauriti. E a riempirli è un pubblico che applaude tanto, tantissimo, con un trasporto riservato in passato solo a eventi di grande richiamo. Ho notato più volte, ultimamente, delle reazioni così calorose. Ma la platea più prodiga di consensi è quella che, al Teatro Franco Parenti, assiste al Don Giovanni di Filippo Timi. Dire che assiste, in questo caso, è persino riduttivo: i fan di Timi entrano per certi versi nello spettacolo, lo pilotano, lo plasmano a loro immagine e somiglianza. Se mi soffermo tanto a lungo sulla risposta della sala è perché questa capacità di creare un legame empatico col pubblico è un tratto essenziale dell'attore perugino. Gli applausi che prende sono tanto rumorosi che per lo più non si capisce neppure quel che dice. E capirlo, in fondo, non è troppo importante. O, almeno, non lo è capire la singola idea, la singola parola. Perché di idee, di parole lui ne mette insieme talmente tante, alternando i concetti di un qualche peso alle facezie più viete, che alla fine non si riesce a distinguere gli uni dalle altre. Come trovare un filo conduttore in questa messinscena in cui Timi mescola lampi di genio – dato che il genio non gli manca, lo dico pur non essendo un suo fervente estimatore – a banali trovate goliardiche, raffinate suggestioni sceniche a effettacci sfrontati, riferimenti colti a pesanti doppi sensi. Ogni volta che smette di ammiccare per alzare il livello di cattiveria, sente subito il bisogno di tornare alla barzelletta da caserma.
Il succo di questa rilettura pop del libretto di Da Ponte è per certi versi nel finale, dove il protagonista, condannabile ed esecrabile, ma pur sempre emblema di un impulso vitalistico che tenta in ogni modo di sottrarsi alla consapevolezza della morte incombente, rivendica «un dio così umano da fare tenerezza, che non cerca il bene, che non combatte il male e finalmente si arrende alla bellezza della vita». E il grande peccatore non sprofonda nelle fiamme dell'inferno, ma si lascia quasi gaudiosamente dilaniare dalle sue amanti-baccanti. Per arrivarci, bisogna tuttavia passare attraverso un testo così volutamente sgangherato da finire per sgangherarsi sul serio. Bisogna passare attraverso mille eccessi, Don Giovanni seduto su un w.c. d'oro che legge la Gazzetta dello Sport, Don Giovanni che si buca, Don Giovanni che si masturba, i Queen e Ridi pagliaccio, una versione rosa-shocking dell'Hitler inginocchiato in preghiera di Cattelan e i video trash scaricati da Youtube. Il meglio dello spettacolo sono indubbiamente i costumi esagerati, quasi scultorei dello stilista Fabio Zambernardi. Non sono male quelle scene dorate, luccicanti come carte da cioccolatini. E non sono male certe intuizioni, che meriterebbero un maggiore approfondimento: quella donna Anna in sedia a rotelle, ad esempio, che si mette a camminare con le sue gambe solo quando le viene ammazzato il padre. «Mi dispiace che ti abbiano ucciso – gli dice – perché non ho potuto farlo io». Ma in breve tempo anche lei diventa una macchietta con la frusta. Timi non sa resistere alla tentazione di far ridere. Cita Kirkegaard, e tutti ridono. Alla fine, l'aspetto più convincente è la qualità interpretativa, mediamente piuttosto alta: accanto a Timi stesso, che – piaccia o non piaccia – è una forza della natura, spiccano in particolare, fra gli altri, Umberto Petranca e Alexandre Styker, i due servi, e specialmente Marina Rocco, travolgente Zerlina da borgata.
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Il Don Giovanni, di e con Filippo Timi. Milano, Teatro Franco Parenti, fino al 24 marzo

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