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Questo articolo è stato pubblicato il 22 marzo 2013 alle ore 12:28.

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La riflessione meta-cinematografica per eccellenza: «8 ½» di Federico Fellini, con protagonista Marcello Mastroianni nei panni di Guido Contini (un regista in grave crisi creativa), è il film più rappresentativo del 1963.

Vincitore del Premio Oscar al Miglior Film Straniero (il terzo per Fellini dopo quelli per «La strada» nel 1957 e per «Le notti di Cabiria» nel 1958), «8 ½» rappresenterà una vera e propria fonte d'ispirazione per intere generazioni di registi e viene abitualmente considerato uno dei lungometraggi cardine della storia del cinema italiano.

A differenza dei giorni nostri, la produzione tricolore di allora era studiata e stimata in tutto il mondo, ricca di tanti titoli intramontabili: basti pensare all'eleganza stilistica di Luchino Visconti ne «Il gattopardo», ispirato al romanzo di Tomasi di Lampedusa, con Burt Lancaster e Claudia Cardinale, all'impegno politico e sociale di Francesco Rosi in «Le mani sulla città», atto di denuncia contro la speculazione edilizia, o al grigio sarcasmo di Dino Risi ne «I mostri», straordinario affresco a episodi con Vittorio Gassman e Ugo Tognazzi. Altri autori italiani all'opera nel 1963, che diedero però il meglio nelle stagioni successive, furono Marco Ferreri con «L'ape regina» e Pier Paolo Pasolini con «La ricotta», cortometraggio con Orson Welles inserito nel film collettivo «Ro.Go.Pa.G.».

In Europa, sulla scia della nascita della nouvelle vague, è il cinema francese quello più all'avanguardia: «Fuoco fatuo» di Louis Malle, «Muriel, il tempo di un ritorno» di Alain Resnais e, soprattutto, «Il disprezzo» di Jean-Luc Godard, ispirato all'omonimo testo di Alberto Moravia e con protagonista Brigitte Bardot, diventeranno presto dei modelli da seguire per la cura formale e l'approfondimento psicologico sui personaggi.
Fuori dai confini italo-francesi impossibile non menzionare «Gli uccelli» di Alfred Hitchcock, forse il più grande capolavoro dell'anno, dove il maestro del brivido crea con inimitabile maestria un film ricco di suspense, grazie anche all'impagabile interpretazione della protagonista Tippi Hedren, e di sequenze rimaste ancora oggi nella memoria collettiva.

Altri fondamentali titoli d'autore, da rivedere o riscoprire per ogni cinefilo che si rispetti, sono indubbiamente «Il servo» di Joseph Losey, un saggio sui rapporti di classe sceneggiato da Harold Pinter, «Il corridoio della paura» di Samuel Fuller, dove un giornalista decide di farsi ricoverare in un manicomio per risolvere un caso di omicidio, «Gli invasati» di Robert Wise, uno dei più inquietanti horror della storia del cinema, e «Anatomia di un rapimento» di Akira Kurosawa con il suo attore-feticcio Toshiro Mifune.

Il 1963 sul grande schermo non è però soltanto sinonimo di cinema d'autore, ma anche di pellicole entrate nell'immaginario popolare (come la seconda avventura di James Bond, «Dalla Russia con amore») e di diverse commedie: da «Irma la dolce» di Billy Wilder a «Le folli notti del Dr. Jerryll» di Jerry Lewis, passando per «Questo pazzo pazzo pazzo pazzo mondo» di Stanley Kramer, il numero di film "leggeri ma di qualità" era davvero molto alto.

Se il titolo di esordio migliore dell'anno lo attribuiamo a «L'asso di picche» di Milos Forman, futuro autore di «Qualcuno volò sul nido del cuculo» e «Amadeus», un'ultima menzione speciale va a Roger Corman maestro del cinema di serie B, che in quell'anno realizzò ben cinque pellicole: «I diavoli del gran prix», «I maghi del terrore», «La vergine di cera», «L'uomo dagli occhi a raggi X» e - il migliore tra questi - «La città dei mostri», ispirato alle opere di H.P. Lovecraft e a un poema di Edgar Allan Poe, con protagonista un indimenticabile Vincent Price.

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