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Questo articolo è stato pubblicato il 24 marzo 2013 alle ore 08:24.

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Oggi, nel nostro mondo votato al movimento, ciò che più impressiona della clausura monastica è l'immobilità. Fa ormai parte del costume occidentale la possibilità che un ragazzo o una ragazza, un manager o una stilista vadano a rinchiudersi dopo un lungo viaggio in un ashram indiano, mentre risulta estremo e sorprendente che un nostro o una nostra connazionale scelga la strada vicina di uno dei tanti conventi che ospita il suolo italiano. Così come è ben vista, anche dai laici, l'azione di quei religiosi che operano in terre remote perché l'idea del movimento, dello spostamento nello spazio fa parte della attuale mitologia della riuscita. Ma da tre libri appena pubblicati, tutti e tre relativi al mondo della clausura femminile, la condizione di immobilità è molto distante: in ognuno di essi questa scelta appare sempre collegata a una sorta di incessante mobilità di azioni e pensieri, che dal monastero investe il mondo circostante. Li ho letti di seguito, uno dopo l'altro, e sebbene in tutti circoli l'aria speciale dei conventi e ricorrano alcuni temi di fondo, sarebbe fare un torto alle loro autrici disconoscere la singola tonalità delle voci e degli argomenti che in ognuno di essi si manifesta. Perché, appunto, ognuna delle autrici segue un suo movimento particolare e intraprende con il lettore un differente viaggio.
La prima non è una religiosa, ma una giornalista, Espedita Fisher, che al tema dell'isolamento monastico, della contemplazione e della scelta del silenzio e della separatezza ha dedicato già due volumi (Clausura e Eremiti). Quello ora appena edito, intitolato Io sarò l'amore. Le nuove vie della clausura, raccoglie storie di vocazioni femminili o, come si legge nel prologo, testimonianze che sono «autostrade verso se stessi, valichi tra le montagne dello spirito, scavati da mani di donne diventate solo Amore». Sono storie molto diverse: qualcuna è arrivata in convento giovane, appena uscita da scuola, o dopo esperienze adolescenziali di droga e sbando; qualcuna è arrivata tardi, come una manager trentacinquenne che mai, prima di sentirsi irrevocabilmente chiamata alla nuova vita, avrebbe pensato di lasciare la grande azienda in cui stava facendo una brillante carriera; molte sono entrate in convento contro il volere dei genitori; qualcuna era ricca e conduceva un'esistenza borghese di piscine e circoli del tennis; qualcun'altra viveva in un piccolo centro del Sud del mondo, altre ancora in ambienti ostili alla Chiesa; e ci sono anche missionarie che dopo aver viaggiato attraverso i continenti hanno lasciato l'azione ad gentes per il silenzio del chiostro. Tutte hanno affrontato La ricerca di Dio (così si intitola il saggio al centro del libro di Madre Anna Maria Canopi, la religiosa da cui ha preso le mosse la ricerca di Espedita Fisher) con un'energia e una intraprendenza del tutto lontane da quella immagine di rinuncia al mondo che si associa alle vie della clausura.
Molto energico è anche il piglio della clarissa Maria Manuela Cavrini che scrive da un monastero di Città della Pieve, mettendo l'idea del movimento fin nel titolo del suo libro: In viaggio con Dio. «Se per i cristiani il cuore è uno spazio sacro» scrive nell'introduzione «è vero per tutti che lì si gioca il destino del mondo, la possibilità che il mondo trovi la sua verità. Credenti e non credenti, ugualmente, hanno nel loro cuore la frontiera tra fede e incredulità...». Per quelle che definisce le sue «briciole di fede» si ispira soprattutto ai Salmi e alle Lettere di San Paolo, ma è la sua riflessione che si fa sentire e che invita a mettere in moto l'«intelletto d'amore», quella speciale intelligenza che unisce alla ragione l'ascolto e l'accoglienza. Dal suo monastero suor Maria Manuela guarda il mondo e lo trova afflitto dalla perdita di realtà che sperimenta l'uomo contemporaneo, dalla sua idolatria per se stesso, dalla scontentezza, dalla manipolazione del creato. Anche la fede ne soffre, quando dimentica «l'atteggiamento anticonformista» di Gesù di Nazaret nei confronti degli esseri umani e diventa «una fredda dottrina» o «un vago sentimentalismo» o «una morale legalista e volontaristica».
Ancora più radicale la posizione di Madre Ignazia Angelini, arrivata in convento a diciannove anni sulla Seicento rossa di suo padre che aveva cercato in tutti i modi di dissuadere la figlia da tale scelta, e ora Badessa del Monastero di Viboldone. Fondamentale per lei , come racconta in Mentre vi guardo, il nodo della relazione: «La comunità monastica» scrive «non nasce per garantire l'isolamento ma per cercare, ogni giorno, relazioni affidabili». Nel suo affascinante racconto, per metà cronaca e per metà riflessione, Madre Ignazia ci tiene a combattere i luoghi comuni, soprattutto quello che considera suggestive o esotiche le monache di clausura e l'atmosfera rarefatta dei chiostri. Anche per lei oggi il mondo è avvelenato «dal mito della realizzazione di sè», da un'idea cioè di profitto personale o di gratificazione narcisistica da cui poi nasce quell'offesa del sentimento che è il risentimento. L'altro, come Eva nella Genesi nasce dalla ferita di Adamo «nasce da una mia ferita, perché l'altro nasce da una parte di me, e io finalmente conosco chi sono»: nel risentimento, scrive ancora, invece di accogliere l'altro si reagisce alla ferita, precludendo la relazione. La vita monastica che descrive ha qualcosa da insegnare ai credenti ma anche a chi credente non è: l'accettazione e il riconoscimento della imperfezione nella quale è necessario vivere, l'utilità dell'umorismo, l'autenticità, che significa non nascondersi dietro un ruolo ma anche non svilirsi nell'esibizionismo, la cura degli oggetti, che deve tenersi a uguale distanza dallo spreco e dalla idolatria del possesso. Secondo Madre Ignazia il monastero dovrebbe espandersi «nei luoghi più diversi nella vita di oggi: nelle carceri, nelle università, negli ospedali, in ogni espressione umana ci dovrebbe essere un piccolo nucleo monastico». E con la sua voce autorevole avanza una precisa richiesta: «Per poter continuare a esistere, i monasteri femminili hanno bisogno di non avere addosso lo sguardo indagatore dei signori di curia, ma di avere un po' più di spazio dialogico vitale nella Chiesa, di poter rimanere più in reale interazione con le altre voci delle comunità credenti».

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