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Questo articolo è stato pubblicato il 24 marzo 2013 alle ore 08:26.

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Sono passati più di dieci anni dall'esordio di Columbu con Arcipelaghi. Questo tempo è stato segnato da un sogno diventato ossessione: realizzare un adattamento in terra e in lingua sarda della Passione di Cristo attraverso una lettura sinottica e onirica dei quattro vangeli.
Su Re (il Re) è il sorprendente risultato che sin dalla prima visione s'impone per l'originale estetica con cui restituisce una delle vicende più rappresentate nella storia delle arti e per la forza di una lettura soggettiva, portata dal personale sentimento religioso dell'autore.
La Passione barbaricina di Columbu è ambientata sul versante più alto del Supramonte di Oliena (nello stesso set in cui Houston girò gli ultimi cinque minuti della Bibbia), è parlata in sardo-barbaricino ed è interpretata da attori e non-attori del luogo, testimoni spesso muti di questa ricercata trasposizione che a tratti ricorda quelle popolari legate alle ricorrenze della Settimana Santa.
Su Re non ha veri termini di paragone cinematografici, ad eccezione del Vangelo di Pasolini, a cui l'unisce la stessa tensione nel raccontare le vicende evangeliche filtrate attraverso lo spirito e l'identità di un diverso e altro universo popolare. Ma dal pasolinate, Su Re si differenzia per una prima forte dichiarazione estetica: l'assenza della parola e il prevalere dei silenzi, rotti dal soffio del vento, dallo scalpitio degli zoccoli degli asini, dagli ansimi degli astanti in una coralità naturalistica che ricorda la lezione del più "sardo" dei registi italiani, Vittorio De Seta, autore di Banditi a Orgosolo.
Ripresi da una macchina a mano mossa direttamente dall'intuizione estetica del regista, anche operatore, fortemente attratto dai vuoti e dai margini della scena, come se avesse voluto cercare nell'assenza una più vera presenza di Dio, questi spazi brulli accolgono i quadri di un'esposizione frammenta e rapsodica della Passione. Giovanni Columbu sogna, stravede, "sragiona"… ricostruisce gli ultimi giorni della vita di Cristo seguendo una logica soggettiva ed emozionale, fatta di rincorse, sovrapposizioni, fughe e ritorni che negano la cronologia degli eventi per cedere il passo a un disegno onirico.
Lo sguardo soggettivo di cui si nutre prende spunto sia dalle fonti interlacciate dei vangeli, sia dalla tradizione popolare, testimonianze diventate immaginario. Non c'è racconto, compreso quello dei vangeli, che non sia filtrato dalla identità di chi lo ha tramandato. Questo dice Columbu, che attraversa le vicende tratte dalle Scritture nello stesso modo in cui uno speleologo ondeggia sulle tracce minerarie di una stratificazione geologica, passando senza soluzione di continuità da un livello all'altro.
Questo approccio crea momenti di corto circuito sorprendenti, come nella sequenza che alterna l'Ultima Cena al sonno degli apostoli nell'orto dei Getsemani, un sonno stregato che trasforma quella cena, dominata dal silenzio ostinato del Cristo, in un incubo. Un Cristo così non s'era mai visto: senza parola, senza predicazione e senza preghiera. Un Cristo lasciato solo con suoi silenzi increduli e i suoi sguardi impauriti. Soprattutto un Gesù "non bello" (interpretato da Fiorenzo Mattu, inizialmente scelto per il ruolo di Giuda), ispirato al carattere forte dei volti del fiammingo Grünewald, un volto "bestiale" nella sofferenza finale, un agnello condotto al macello, come ci appare sin dalla prima scena, appena deposto dalla croce sulle ginocchia della Madonna. Il cinema italiano, ad eccezione di Ciprì e Maresco (pur diversissimi negli intenti), raramente è riuscito a trovare nelle pieghe di facce così fortemente connotate il senso della trasfigurazione e della trascendenza.
Ecco, queste sono solo alcune schegge di un'opera tanto complessa quanto originale che ci auguriamo possa suscitare un dibattito serio e partecipato.
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